Parigi val bene un canestro
#37 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi una canzone, la capitale francese sempre più NBA e la religione dell'Indiana
Ciao, prenditi due minuti e mezzo per ascoltare questa canzone. Poi ne parliamo.
Piaciuta? È Love Train degli O'Jays, ora ti dico.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il numero 37 di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
La scorsa uscita – se ti è sfuggita, leggila qui – era quella di fine anno e ci ho scritto una serie di notizie e riflessioni varie, spaziando dall'America all'Italia, sempre con agganci alla nostra amata pallacanestro, ovviamente.
Anche oggi salteremo qua e là tra i due continenti, soffermandoci in particolare su due città, con un comune denominatore: la NBA.
Ma aspetta un momento… Eravamo rimasti alla canzone, vero? Ti anticipo che ci porterà, in qualche modo, alla prima di esse. Sound on!
Il terzo cugino
Come è saltata fuori Love Train? E chi sono The O'Jays? È tutta colpa di Flavio Tranquillo. Che di digressioni e divagazioni, nelle sue telecronache su Sky, ne fa tante, ma questa più di altre ti mostra fin dove il basket possa portarti a pescare. Che poi è il motivo, o uno dei motivi, per cui ho dato vita a Galis.
Guardando il video, hai notato che non si tratta di un brano attuale. Sai in che anno è uscito? Nel 1972, verso la fine, per poi diventare una hit nel 1973. Wikipedia lo assegna ai generi Philly soul e R&B, ma anche ai meno familiari proto-disco e bubblegum pop. In ogni caso, è già passato oltre mezzo secolo e quelle immagini ci sembrano così distanti, inusuali, quasi bizzarre: capigliature, abiti, stile, colori, grafiche, forse qualcosa di improponibile oggi ma per certi versi stupendo.
L'ambiente è molto, ma molto black. E non è certo il mondo black di oggi, super trendy e sfacciatissimo, ma quello degli anni Settanta, quando, insomma, non è che gli afroamericani fossero ancora così integrati e accettati ovunque, facevano parecchio storia a sé, conseguenza di quell'apartheid che gli Stati Uniti hanno praticato a lungo in ampi settori della propria nazione e che è all'origine di problemi tuttora vivi e reali.
Se osservi attentamente l'aspetto e l'atteggiamento di musicisti, artisti, sportivi neri di cinquant'anni fa, viene fuori un affascinante ed energetico mix di eleganza, rabbia e voglia di vivere, che scaturiva dalla durezza e dalle sofferenze esteriori e interiori che affrontavano nella vita di tutti i giorni. E pensa che il testo di Love Train è tutt'altro che rabbioso: è un invito alle persone di tutto il mondo a prendersi per mano e a unirsi in un treno d'amore e fratellanza, e dunque è straordinariamente attuale.
Ultra black era anche Soul Train, lo show televisivo da cui è tratto il video. Un format nato proprio in quegli anni da un'idea del conduttore e producer Don Cornelius e durato oltre tre decenni, fino al 2006, ospitando tutti i più grandi nomi di soul, jazz, R&B, funk, gospel, fino ai rapper contemporanei.
In definitiva, se hai modo di approfondire qualsiasi settore della black culture, ci trovi cose pazzesche. Una storia parallela in tutto e per tutto a quella ufficiale di matrice WASP a cui la maggioranza di noi, da intendere come “bianchi”, è abituata (Luca Mich, se sei in ascolto intervieni pure, che ne sai moooolto più di me!).
Ehi, ma questa non è una newsletter di basket? Certo. Tranquillo, intendo Flavio, che oltretutto è del 1962 e per quanto sia sempre sul pezzo ci sta che faccia citazioni un po' vintage, ha rievocato Love Train durante una recente telecronaca dei Cleveland Cavaliers, attuale squadra di Caris LeVert. E come il proverbiale coniglio dal cilindro, ha tirato fuori che l'ala classe 1994, nato a Columbus, Ohio, è il “terzo cugino” (third cousin, o cugino di terzo grado se preferisci) di Eddie Levert, con la v minuscola (non chiedermi perché, non ne ho la più pallida idea). Eddie, oggi ottantaduenne, altri non è che il lead vocalist, cioè il cantante principale, degli O'Jays di cui sopra. Nel video è il primo da destra, quello con il testone più grande degli altri due.
Composto anche da Walter Williams ed Eric Grant, il gruppo è ancora in attività e si è formato a Canton, sempre Ohio, nel lontanissimo 1958 quando erano ragazzi al liceo, con i nomi di The Mascots prima, The Triumphs poi e infine The O'Jays, in omaggio a un altro Eddie, tale Eddie O'Jay, popolare deejay – che fa anche rima – di Cleveland che li aiutò. Questa cosa del terzo cugino è abbastanza sorprendente, perché Eddie e Caris hanno cinquantadue anni di differenza pur avendo un trisavolo in comune.
Perdendoti in Wikipedia, scopri anche quella maledizione di fondo che segna indelebilmente la vita di molti afroamericani. Eddie Levert tra il 2006 e il 2008 ha perso entrambi i figli Gerald e Sean, tutti e due intorno ai quarant'anni, uno morto d'infarto per abuso di farmaci e l'altro in carcere (dove scontava una pena per non aver adempiuto al sostegno economico dei tre figli) in seguito a complicazioni dovute a pressione alta, diabete e sarcoidosi. Con l'amico Marc Gordon, avevano formato il trio R&B e soul chiamato LeVert, questa volta con la maiuscola.
E così hai visto quante vicende e quanti collegamenti possono nascondersi dietro una canzone soul di cinquant'anni fa e un giocatore NBA di oggi. Non solo: Caris LeVert, cognome di ascendenza francese (letteralmente “il verde”), gioca nei Cavaliers e i Cavaliers erano una delle due squadre del Paris Game 2024 disputatosi nella Ville Lumière lo scorso 11 gennaio.
Ora voliamo fin là, che ho un po' di robe da dirti.
À bientôt, Paris!
È sorto un problema con il Paris Game, la partita di regular season che dal 2020 la NBA disputa nella capitale della Francia, alla Accor Arena di Bercy: è poco spettacolare.
Questo proprio nel periodo in cui, con una serie di provvedimenti e novità, la NBA sta cercando di infondere o restituire competitività e interesse a tutte le parti di stagione che non siano playoff: i play-in, l'In-Season Tournament, la regola che limita il load management e quella che vincola i premi individuali a un numero minimo di presenze e infine il ritorno dell'All-Star Game alla vecchia formula Est contro Ovest, assente dal 2017. E altri ne verranno.
Il Paris Game, almeno nei soli tre anni in cui si è giocato (dopo il 2020, è ripreso nel 2023 in seguito alla pandemia, mentre dal 2011 al 2019 l'evento era a Londra), non è stato certo sinonimo di spettacolo, almeno sul parquet. Quest'anno, a parte una bella prestazione individuale di Donovan Mitchell, Cleveland Cavs e Brooklyn Nets hanno fatto vedere pochino. Così come Chicago-Detroit dello scorso anno e Milwaukee-Charlotte del 2020 non sono certo gare rimaste negli annali.
D'accordo che la finalità preponderante è quella di marketing e promozione di una lega sempre più globale sull'importantissimo mercato europeo (cosa che sta facendo anche la NFL), e che per le squadre le distrazioni in città non mancano e c'è pure un fuso orario non indifferente con cui fare i conti, però resta il fatto che si tratta pur sempre di una partita di stagione regolare, non di un'esibizione di settembre, e un pubblico che in gran parte potrebbe avere solo questa occasione per vedere la NBA dal vivo senza volare oltre l'Atlantico un po' di diritto di emozionarsi e divertirsi ce l'ha.
Naturalmente il commissioner Adam Silver è uno che pensa sempre a tutto e sta già correndo ai ripari: per il prossimo anno già si parla di due partite anziché una, della presenza di Victor Wembanyama con i suoi San Antonio Spurs (rompendo anche un altro tabù, quello che vuole in Europa solo squadre della Eastern Conference, perché il viaggio è più breve) e addirittura più avanti si ipotizza di disputare qui l'All-Star Game o la Final Four dell'In-Season Tournament. Staremo a vedere.
In ogni caso – e te lo dicevo già in Galis #6 – Parigi è sempre più il cuore della NBA in Europa, peraltro nell'anno dei Giochi Olimpici che grazie alla presenza di Team USA con grandi star non potranno che incrementare tale tendenza. La quantità di eventi, attrazioni e iniziative collaterali messi in piedi dalla lega e dagli sponsor per il Paris Game è straordinaria. Io non c'ero, ma penso che svariati lettori di questa newsletter che hanno avuto l'opportunità di partecipare (magari anche tu!) possono confermarlo, dalla NBA House alla... pizzeria pop-up dei Brooklyn Nets o al cafè dei Cavaliers, passando, su un piano più tecnico, alle collaborazioni tra NBA, federazione e campionato francesi per lo sviluppo dei prospetti più interessanti.
Il legame tra Parigi e la NBA ha un anno simbolico di inizio: il 1997, quando i Chicago Bulls di Michael Jordan vinsero qui, proprio nel palazzo di Bercy, il McDonald's Championship. Una liaison mai venuta meno, quella tra Air e la capitale della Francia, dove oggi il Jordan Brand (marchio Nike) coltiva fortissimi interessi, tanto da sponsorizzare il Paris Saint-Germain – che bello vedere il jumpman su maglie da calcio! – ma anche il Quai 54, uno dei tornei di streetball più intensi e interessanti del mondo. A tal proposito ti consiglio di leggere l'articolo di Maria Barone, collaboratrice del mio blog Never Ending Season, che ha avuto l'opportunità di assistere dal vivo all'edizione 2023.
A Parigi si conserva inoltre il campo da basket più antico del mondo, una palestra dove si gioca fin dal 1893, appena due anni dopo l'invenzione di James Naismith. E i fan locali, oggi, hanno pure un club giovane, cool e super ambizioso per cui tifare: il Paris Basketball, fondato nel 2016, che presto potrebbe essere ammesso in una EuroLeague sempre più desiderosa di espandere il proprio mercato puntando su bacini come Parigi, Londra e Berlino. Il management, presieduto dallo statunitense David Kahn, ha molte connessioni con la NBA e puoi saperne di più guardando il breve documentario realizzato da Bristol Studio e Alejandro Narciso che ti metto a fine paragrafo.
Insomma, parafrasando la celebre frase di Enrico di Navarra, Parigi val bene un canestro. Però, attenzione: non facciamo diventare il Paris Game una partita fredda e poco interessante, un po' come sono stati i più recenti All-Star Game. Perché è proprio di questo che, dopo aver visto il video, ti parlerò.
But this is Indiana...
Se in questi giorni passi dall'aeroporto internazionale di Indianapolis, trovi il terminal allestito così.
Esattamente. Un campo da basket regolamentare, a immagine e somiglianza di quello che, dal 16 al 18 febbraio, ospiterà l'NBA All-Star Weekend. È bene ricordare che l'All-Star Game è soltanto il clou di una serie di eventi che coprono i tre giorni in cui, senza alcuna finalità agonistica, la lega promuove se stessa. La “partita di tutte le stelle” si giocherà domenica 18 nell'arena dei Pacers, la Gainbridge Fieldhouse.
Mi tocca spegnerti l'entusiasmo: il campo allestito in aeroporto è solo una vetrina. Non ci sono palloni ed è assolutamente proibito mettersi a tirare. Ma la cosa sembra piacere lo stesso, anche perché, come disse lo scrittore Kurt Vonnegut nativo proprio di Indianapolis, “un Hoosier parla di basket anche per un'ora dopo che è morto e ha smesso di respirare” (Hoosiers è il soprannome degli abitanti dell'Indiana).
C'è un detto che va per la maggiore da queste parti:
In 49 states it's just basketball, but this is Indiana.
In 49 stati è solo basket, ma questo è l'Indiana. Tanto per evidenziare come qui la pallacanestro sia una sorta di religione collettiva. E quindi, nell'anno in cui la capitale nonché unica grande città ospita l'All-Star Weekend, per gli appassionati e per gli addetti ai lavori non poteva esserci un benvenuto migliore di un vero parquet nel bel mezzo del terminal aeroportuale.
L'All-Star Game torna a Indy dopo trentanove anni e per la seconda volta in assoluto. La prima fu nel 1985 allo RCA Dome, l'ex stadio di football degli Indianapolis Colts, demolito nel 2008. C'erano proprio tutti: Michael Jordan, Larry Bird, Julius Erving, Isiah Thomas, Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar e tanti altri, nonostante il premio di MVP sia andato a Ralph Sampson. Anche quest'anno useranno un'impianto di football, il Lucas Oil Stadium (che sostituì lo RCA Dome), ma solo per il Saturday Night, la serata con le gare di abilità, tiro da tre e schiacciate.
Tornando a quanto ti dicevo prima sul “new deal” della NBA per restituire centralità alla competizione e alla lega stessa, forse non si poteva scegliere una città migliore, in fatto di rispetto per il gioco, per ripresentare la tradizionale formula dell'All-Star Game: la selezione della Eastern Conference contro quella della Western Conference. Ciò non basta a scongiurare l'irritante spettacolo a cui si è ridotta questa partita negli ultimi anni, ma è comunque un segnale importante verso la nuova direzione.
Va così in soffitta la modalità “campetto”, in cui i “capibranco” – utilizzando un termine caro a Riccardo Pratesi – più votati dal pubblico si occupavano di “fare le squadre”, scegliendo a turno un giocatore. Inoltre, tornano i canonici quattro periodi da dodici minuti, in luogo dell'altrettanto irritante elam ending visto nelle recenti edizioni (una sorta di “chi arriva primo a tot punti, vince”). Il messaggio è ancor più chiaro: care stelle, smettetela di fare i boss e ricominciate a rispettare la NBA, il basket e chi paga per vedervi giocare. Anche le uniformi, una rossa e una blu, sono sobrie ed eleganti.
Se in NBA l'Indiana è rappresentato dai Pacers, la vera anima “a spicchi” di questo stato del Midwest è insita nella pallacanestro liceale e universitaria. La chiamano Hoosier Hysteria ed è una passione difficilmente spiegabile senza viverla dall'interno, come asserisce Mark Titus in questo profondo articolo di qualche anno fa su The Ringer. Il basket è parte integrante dell'identità dell'Indiana, ben più della famosa 500 Miglia di Indianapolis, ben più di altri sport prettamente americani come baseball e football. È una costante per questa gente, dai campi di granturco (tipica è l'immagine del fienile con un canestro appeso) alle cittadine industriali, i due ecosistemi dello stato.
Personaggi come Larry Bird e Bob Knight, realtà come i Pacers o i grandi college quali Indiana, Purdue, Notre Dame, Butler, sono solo la punta dell'iceberg di un amore ben più radicato, che trova la sua genuina espressione nell'antico torneo delle high school, quello che ha ispirato il film Colpo vincente (titolo originale Hoosiers), un classico della cinematografia sportiva uscito nel 1986.
La particolarità di questa competizione è che fino al 1997 riuniva tutti i licei dell'Indiana in un solo campionato, mentre da allora sono stati suddivisi in categorie in base al numero di studenti. Così venne meno la possibilità per la piccola scuola di campagna con poche decine di alunni di vivere una favola sfidando il grande istituto di città, situazione che ha ispirato il suddetto film e che è successa varie volte, tra cui proprio nell'ultima occasione, quando nel 1997 la “cenerentola“ Delta High School arrivò in finale contro la sproporzionata Bloomington North, perdendo 75-54 ma ricevendo applausi e festeggiamenti come se avesse trionfato.
Forse oggi, come spiega Titus nel suo pezzo, la tradizione si è un po' affievolita e molte scuole dell'Indiana sono ormai scomparse o in declino, per tutta una serie di cause, dallo spopolamento allo stile di vita delle nuove generazioni, però la Hoosier Hysteria resta un patrimonio incredibile, alla stregua di un credo religioso i cui santuari sono grandi palestre - come quella di New Castle, che con i suoi 9325 posti è l'impianto scolastico più capiente del mondo - oppure le tantissime e storiche piccole palestre di high school rurali disseminate in tutto lo stato, alcune purtroppo abbandonate, altre in uso e altre ancora diventate una sorta di museo. Ad esempio, la Hoosier Gym di Knightstown, location di Colpo vincente.
Sull’argomento ci sarebbe da parlare per ore, ma se vuoi conoscere di più sul rapporto tra l'Indiana e il basket, tra realtà e cinematografia, ti consiglio di leggere l’apposito capitolo all'interno del libro Basketball Journey di Alessandro Mamoli e Michele Pettene e questo mio articolo, dove tra l’altro trovi spiegato da dove deriva la parola Hoosier.
E prima di passare al consueto Shootaround e alle conclusioni, salutiamo l’Indiana con le parole di Mark Titus:
La Hoosier Hysteria sta morendo? Non può morire. La Hoosier Hysteria è una religione, e lo intendo in senso letterale. È una fede in un'idea così forte da permeare ogni aspetto dell'esistenza dei suoi seguaci. È uno stile di vita e una venerazione di qualcosa di più grande di sé, con luoghi di culto che ospitano intere popolazioni cittadine e divinità che portano maglie, maglioni rossi e pettinature con la riga laterale. […] Non so se i ragazzi dell'Indiana vengano ancora cresciuti con una malsana ossessione per il basket. Non so se le squadre universitarie di tutto lo stato torneranno mai ai loro precedenti livelli di importanza. Non so se la magia della Hoosier Hysteria potrà mai essere recuperata, o se è andata perduta per sempre dopo il campionato statale del 1997. Ma questa è la vita: invecchi, vai verso il futuro e speri che la generazione successiva tenga altrettanto alle cose che più contano per noi, anche se sai che non lo fa. Tutto ciò che puoi fare è mantenere la fede, e io ci credo ancora.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Il 26 gennaio sono trascorsi quattro anni dalla scomparsa di Kobe Bryant. Maria Barone lo ricorda così sul mio blog.
E a proposito di numeri 24, i secondi per andare al tiro non sono sempre stati tali: qui ripercorro la storia dello shot clock.
E ancora a proposito di Flavio Tranquillo, è stato ospite del podcast di Overtime per la puntata numero 100: ascoltalo qui.
Intanto i Milwaukee Bucks hanno cambiato allenatore: Dario Vismara su L'Ultimo Uomo spiega molto bene perché.
Giannis Antetokounmpo prosegue nel suo percorso imprenditoriale lanciando la casa di produzioni Improbable Media. Il 19 febbraio arriva su Prime Video il documentario sulla sua storia.
Il creator Farno - nickname di Alessandro Farneti - ha intervistato e seguito nel suo lavoro in prima linea il fotografo ufficiale della Virtus Bologna, Matteo Marchi, che ha lavorato anche in NBA.
Ancora V Nere: Gaia Accoto intervista per Sky Sport un tifoso amico di Marco Belinelli su cosa significa essere virtussini: guarda il reel.
Jeremy Renault, fotografo francese di base a Tokyo e da me intervistato in Galis #25, ha ritratto il giapponese dei Phoenix Suns Yuta Watanabe. Ecco gli scatti.
Shabazz Napier si racconta così al sito dell'Olimpia Milano.
Ti ricordi Alfonzo McKinnie, quello che dal Lussemburgo arrivò ai Golden State Warriors? Oggi gioca a Sassari e allora guardalo su Legabasket.it.
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Dario Ferretti, CEO di Pick-Roll e già ospite di Galis #22, racconta il suo successo imprenditoriale al podcast di startup The Harvest.
A proposito, le storie di chi ha trasformato la passione per il basket in lavoro, presenti su Local Hoops, sono bellissime. Qui le trovi tutte, le ultime sono quelle del manager Curtis Oakley Jr., della digital creator Jayda Bovero e del trainer Brandon Heyen. (in inglese)
Roberto Gennari spiega la Heat Culture su The Spo(r)t Light. (solo abbonati)
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Su SLAM, per la serie Hoops, rap and everything black, Curtis Rowser III intervista Dorian Finney-Smith dei Brooklyn Nets: l’articolo è qui. (in inglese)
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Conclusioni
Eccoci alla fine di questo numero 37 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter.
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È tutto, ci vediamo il 29 febbraio, perché il 2024 è bisestile. Ciao, buon All-Star Weekend e buona Final Eight!