Bum-cha-bum-cha
#33 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi un'intervista su pallacanestro e musica, Suga dei BTS e lo Shootaround
Ciao, da amante del caldo, sono solidale con Damian Lillard che voleva Miami e lo hanno spedito a Milwaukee. Ma l’estate è finita, no?
Io sono Francesco Mecucci e questo è il numero 33 di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
Nella scorsa uscita – se l'hai persa, leggila qui – ho trattato di pallacanestro, uguaglianza e diritti e del successo di Afternoon. A proposito, grazie Gigi e speriamo di vederti presto presidente FIP!
Il tema di oggi è un altro fondamentale aspetto dello sport che amiamo: la musica. E dato che non sono un esperto, ho intervistato uno che ne sa parecchio, in particolare di NBA e black music: Luca Mich.
Luca si aggiunge agli ospiti che ho avuto finora con estremo piacere qui nella mia newsletter e che saluto: Francesca Di Fazio, Dario Ferretti, Michele Pettene, Jeremy Renault.
Ora consentimi un «Questa è Galis, cominciamo!»
Il ritmo del basket
Viaggiatore, copywriter, baller e vinyl digger, Luca Mich, classe 1983 dal Trentino, segue la NBA dal 1995 e cura il podcast di musica, sport e cultura afroamericana Better Go Soul. Lo scorso 11 agosto ha partecipato a New York al grande evento per i 50 anni della nascita ufficiale della cultura hip hop. Quale migliore occasione, allora, per una chiacchierata sulle connessioni tra basket e musica.
Luca, quanto sono profonde le radici di questo rapporto? È solo rap o anche altro?
Sono molto profonde, in quanto basket e musica sono entrambi sublimazioni dell’estro umano che richiedono grande abilità di lettura del tempo, azioni e reazioni di concerto con i propri compagni e capacità di attendere il momento dell’assolo. In realtà, la musica che più di tutte rappresenta il muoversi in campo dei giocatori è il jazz. Ne parlava Kareem Abdul-Jabbar nel fondamentale Sulle spalle dei giganti:
Molti che non hanno familiarità con il jazz pensano che sia tutto una questione di assoli improvvisati […] In realtà, il jazz è esattamente l'opposto. È vero, ci sono magnifici assoli, ma quei momenti non sono il fulcro del jazz, fanno parte del più ampio brano musicale. Ogni persona suona come parte di una squadra di musicisti: si ascoltano l'un l'altro e rispondono di conseguenza. […] C'è senz'altro improvvisazione, ma sempre all'interno della «struttura musicale» di un obiettivo comune. Lo stesso vale per la pallacanestro. Quando giochi a basket è tutta una questione di tempi, proprio come per una canzone.
Il jazz, inoltre, è allo stesso tempo controllato, misurato, imprevedibile ed esplosivo. È basket in musica. Ed è musica creata dalla comunità afroamericana, come tutta quella moderna: il rock è figlio diretto del blues, la house della disco, la disco del funk, l’hip hop di funk e soul. Oggigiorno il basket è più associato a ritmiche in quattro quarti, quelle proprie dell’hip hop.
Le comunità dei playground abbracciano tale cultura perché è ciò che permette loro di esprimersi attraverso più discipline (writing, rap, djing, ballo) e gli sport di squadra che hanno la stessa dinamica: nei pick-up game vieni scelto a caso, nessuno sa chi sei, vai là fuori e inizi a palleggiare al tuo ritmo, bum-cha-bum-cha, 1, 2, cambio mano, raccolgo e ciuff. È ritmo, improvvisazione, freestyle: è hip hop. Certo, in passato, quando il basket era manifestazione dell'establishment bianco, veniva associato anche al rock. Ma il rock non ha nulla di pallacanestro, forse quello di Jimi Hendrix, ma mi fermerei lì.
Quali emozioni ti sei portato a casa dall'evento di New York?
È stato un momento semplicemente perfetto. New York per un'estate è tornata agli anni '70, quando l'hip hop muoveva i primi passi in strada grazie ai block party, feste organizzate da dj di origini giamaicane come il padre fondatore DJ Kool Herc, dove nascevano i primi beat mettendo a tempo due dischi uguali e creando il tappeto perfetto per chi volesse rapparci sopra. Ogni cosa nell'hip hop è fatta per la gente, per permettere a tutti di dimostrare cosa si sa fare.
Le strade erano piene di persone di ogni età, nonni, genitori e nipoti a ballare sulle note dei Run DMC, Common, Sugar Hill Gang, Snoop Doog, Wu-Tang Clan e tutte le altre leggende di un movimento, mescolate tra old e new school senza soluzione di continuità. Per certi versi un evento più importante di Woodstock, almeno per la musica nera. Un momento di sublimazione e riconoscimento di una cultura identificata con una città.
Il basket era presente in ogni cosa, da chi faceva girare la palla sulle dita mentre i breakdancer evoluivano sullo stesso pezzetto di strada e il dj scratchava a tempo sui dischi, alle immancabili canotte e sneaker. Ed era presente nell'attitudine alla sfida, al confronto per migliorare, a dimostrare chi ha il diritto di rimanere in campo o deve lasciar spazio ad altri. Hip hop e basket li puoi praticare solo nella loro forma originaria: tu e i piatti, tu e la palla, tu e il microfono. E quando ti senti pronto, vai là fuori e sfidi qualcuno, capisci chi sei. È bellissimo respirare tutto ciò in ogni corner della città: New York è il top del concetto di espressione del sé e l’hip hop la sua diretta conseguenza.
Come e quando sono nate le tue passioni per basket e black music?
Vengo da un paesino della provincia di Trento e collezionavo come tutti le figurine di calcio, vedevo in tv Roberto Baggio e iniziavo a interessarmi a personaggi che avessero un cuore, una storia, qualcosa di più dell'abilità col pallone. Poi un giorno, a scuola, un amico mi mostrò delle figurine mai viste prima. Giocatori in movimento e non in posa: c’era quello con la lingua fuori, quello con le fasce al braccio, o con gli afro. Ognuno con uno stile diverso che volava verso il cerchio rosso. Un colpo di fulmine: la mia curiosità è nata lì e ha permesso di svilupparmi in modo completamente diverso dai miei coetanei, andando sempre alla ricerca di un pezzettino di quella storia di cui avevo visto solo qualche frammento stampato su carta olografica. Da lì, ho unito i puntini sportivi e culturali e mi sono innamorato di ciò che stava dietro al mondo NBA.
Ed è quello che provo a raccontare oggi con Better Go Soul, un progetto di podcast periodico (purtroppo riesco a dedicargli un tempo limitato) che narra giocatori, musicisti e personalità dello sport afroamericano, associandole alla musica e al loro contesto storico. L'ho avviato durante la pandemia e ora si sta trasformando in altri progetti correlati: dj set a tema afro, un progetto per una radio locale che si chiamerà Brown Sugar (e sarà anche online), racconti di viaggio negli States e dintorni. Torneranno comunque anche le puntate più classiche sui giocatori.
Raccontaci le tue esperienze nei playground americani: cosa si prova a giocare lì?
Periodicamente sento il bisogno di giocarci, soprattutto a New York, perché la palla rimbalza in modo diverso. C'è un mondo dietro ogni suono, ti senti parte di un flusso, una storia, una cultura. Giocare al Rucker o a Goat Park (il mio preferito nell'Upper West Side, dove nacque il mito di Earl Manigault), a The Cage o a Soul in the Hole a Brooklyn, è un'esperienza in primis sociale.
Tutto inizia dall’adocchiare il canestro giusto dove metterti in fila e aspettare il tuo turno, e intanto mostrare le tue doti, entrando a partita finita per un “21” o qualche tiro, in modo che lì intorno vedano un po' cosa sai fare e possibilmente ti scelgano per un pick-up game. È importante essere umili, capire chi comanda, scambiare qualche battuta con rispetto, usare lo slang e poi passare la palla a chi conta... tranne quando tocca a te giocare! Perché allora se passi la palla in 1-vs-1 sei debole, l’azione dopo verrai massacrato o i compagni non te la passeranno più: fai canestro e continuerai a riceverla; sbagli e toccherà a un altro. Devi difendere basso sulle gambe e non andare sotto fisicamente: in quel modo il tuo avversario ti rispetterà. La volta successiva ci riproverà più forte, ma sei lì per quello, per alzare l'asticella.
Ho sempre vissuto situazioni bellissime, in cui a fine partita ti stringono la mano. Può capitarti di affrontare un universitario di alto livello, oppure giocare contro un perdigiorno in trip dopo un joint e prenderne comunque venti in faccia. Può spuntare dal nulla un homeless con scarpe bucate e palleggio da mettere a sedere Allen Iverson. Gente di strada che ha storie opposte alla tua e non è lì per turismo, ma perché quello è il suo campo, ci dorme sopra ogni notte. Tutto questo è magia, sei lì a godertelo, forse non sai nemmeno perché, ma senti di appartenere a quel cemento. Gil Scott-Heron, poeta di Harlem, diceva:
New York City
I don’t know why I love you, but
it could be you remind me of myself.
Tornando al rap, dagli Shaq/Diesel e Iverson/Jewels di ieri al Damian Lillard/Dame D.O.L.L.A. di oggi è passata un’eternità. Cosa pensi della relazione tra basket e musica nell’era di Spotify rispetto all'underground dei primi decenni?
Credo che ci siano differenze soprattutto nei modi, ma le intenzioni a monte sono simili: è una questione di appartenenza. Shaq era cresciuto con The Notorius B.I.G. e Tupac nelle orecchie, giocava a basket ma apparteneva alla cultura hip hop: fare rap, per lui, era naturale quanto andare spalle a canestro. Iverson era la “doppia h” in persona, il suo rap sgorgava naturale come acqua di sorgente. Per Dame è la stessa cosa, anche se sono cambiati i mezzi, le contaminazioni, gli stili. Per tutti è più facile accedere alla musica, però farla rimane sempre un fatto di stile e capacità, proprio come giocare. Ci sono più attenzioni mediatiche, ma alla fine rimane ciò che emoziona al di là dell’hype.
Adesso una figura che si sta evolvendo molto è quella del dj. Sembra paradossale, perché potenzialmente tutti possono esserlo con le nuove consolle, ma il vero dj è colui che la musica la scopre nel marasma delle uscite di oggi, la mette in fila, le dà un senso nei set e ti guida alla scoperta di ciò che ti piace. È un traghettatore. Non a caso Shaq, con la sua personalità vera e strabordante, è anche un affermato dj: la differenza continuano a farla attitudine e skills.
C’è una storia poco conosciuta di basketball & music che meriterebbe di essere raccontata?
Ce ne sono diverse, sia nell'underground attuale che nella storia. And1 Mixtape, ad esempio, è stato un game changer: ne ho parlato in Better Go Soul un anno prima del documentario della serie Untold su Netflix... Secondo me, però, una storia potente e totalmente da recuperare è quella di Master P, producer di New Orleans tra i pesi massimi della scena anni '90, una sorta di P Diddy della Louisiana che riuscì a giocare qualche partita con i Toronto Raptors.
Segui la scena musical-cestistica italiana e mondiale? Pensi che fuori dagli Stati Uniti note e palla a spicchi possano aiutarsi a vicenda?
Assolutamente sì. Anche qui in Italia le dinamiche di contaminazione reciproca sono simili a quelle americane, seppur su scala inferiore. Da Danno dei Colle der Fomento che canta «sul flash del clash del sound ti ci giochi la reputazione come nei playground» e parla delle Jordan che indossava nei primi anni, a Ghemon che cita il basket in molte canzoni (in una nomina Derrick Rose) e fa le comparsate da Flavio Tranquillo su Sky, e poi Neffa, i Sottotono, con Tormento che indossa la canotta di Reggie Miller sulla cover dell'album In teoria, i riferimenti sono infiniti.
Marracash parla delle strade e dei campetti di Barona, al Testaccio a Roma puoi trovarci Franco126 che fa due tiri, a Verona Mr. Zampini e Capstan. Insomma dall’underground al mainstream il basket ha contagiato tutti. E la cosa vale a livello mondiale, dal Canada, con Drake che ha messo Toronto sulla mappa, alla Francia, dove drill e rap sono presenti nelle banlieue. A Brixton, Londra, suonano la grime, la loro versione del rap, e i cestisti compaiono nei video. È un immaginario fortissimo che si muove all’unisono in giro per il globo.
Giochino finale: scegli 3 artisti e un loro brano + 3 giocatori che rappresentano meglio di tutti il legame basket-musica.
Come artisti, i Public Enemy, il gruppo newyorchese che ha musicato i film di Spike Lee, con il pezzo He Got Game che è un inno alla pallacanestro; i Dead Prez, con The Game of Life apparso nella soundtrack di Soul in the Hole nel 1997, in cui citano diversi giocatori dell'epoca; e Tupac, l'Allen Iverson delle rime, che con Pain (nella colonna sonora di Above the rim) ha riscritto l'immaginario streetball.
Tra i giocatori, ovviamente Allen Iverson, swag e hip hop incarnati in uno dei migliori cestisti di sempre, definito “Tupac con il jumpshot”; Stephon Marbury, il simbolo di Coney Island e dell'attitudine gangsta della NBA anni 2000, lo swag prima dello swag; e infine John Salley: non lo ricordano in molti, ma fu un difensore fondamentale nei Pistons del back-to-back 1989-1990 e fu grazie a lui e alla sua passione per la musica che a Detroit nacque uno dei primi super studi di registrazione dove incisero Jay Dilla, uno dei più rivoluzionari producer di tutti i tempi, e Paul Rosenberg, che trovate accreditato in ogni disco di un “certo” Marshall Mathers III il quale proprio lì registrava i suoi demo tape. E il resto è storia.
Dalla hallyu alla NBA
Sing song when I'm walking home
Jump up to the top, LeBron
Come scrivevo in Galis #25, sembra che oggi tutto ciò che riguardi la cultura giapponese sia diventato di moda, tanto che se capiti in una libreria, è molto facile trovarci svariati libri sul Sol Levante o di autori che vengono da lì. Seppur in misura minore, potresti notarne altri che hanno invece a che fare con un altro paese dell'Estremo Oriente, la Corea del Sud.
È l'effetto della hallyu, la cosiddetta “ondata coreana” per cui da una ventina d'anni, con un decisivo aiuto di internet, la cultura di massa di questa nazione dinamica e ipertecnologica, dove la democrazia è arrivata solo nel 1987 e il contrasto con la cupa realtà della confinante Corea del Nord è più vivo che mai, è divenuta popolare e attraente in tutto il mondo, specialmente in musica (do you remember Gangnam Style?), cinema (Parasite), serie tv (Squid Game) e altre espressioni della cultura contemporanea.
In particolare, è il genere musicale noto come K-pop il più potente propulsore della Korean Wave, grazie al successo globale dei BTS, band che proprio quest'anno ha festeggiato dieci anni e che incarna, allo stato attuale, la “cosa” sudcoreana più famosa del pianeta. Attraverso brani che fondono pop e rap, RM, Jin, Suga, J-Hope, Jimin, V e Jung Kook sono diventati la cassa di risonanza di sogni, aspettative e urgenze dei giovani in una società che, al di là di tutto, mantiene ancora e in parte una certa connotazione tradizionalista.
Va detto che i BTS, come altri gruppi simili, sono in qualche modo “creati in laboratorio”, in quanto i sette ragazzi sono stati scelti, messi insieme e preparati dalla Big Hit Entertainment (oggi Hybe), secondo un modello, discutibile o meno, che vede case discografiche e agenzie di talenti impegnate a costruire un prodotto esteticamente perfetto da lanciare sul mercato. Tuttavia con i loro brani i BTS – acronimo di Bangtan Sonyeondan, “Boyscout a prova di proiettile” – sono stati in grado di costruire un solidissimo legame con i fan, trovando in loro un sostegno reciproco, trasmettendo un messaggio positivo e affrontando temi quali il superamento di disagi giovanili e l'abbattimento degli stereotipi.
Perché ti parlo dei BTS? C'entrano con il basket? In un certo senso sì, perché uno di loro è un grande appassionato e da aprile è diventato NBA Ambassador. Lui è Suga, nickname di Min Yoon-gi (da un po' si fa chiamare anche Agust D), ha trent'anni e al liceo è stato un buon giocatore nel ruolo di guardia. Suga, che a scanso di equivoci si pronuncia “shuga”, deriva infatti dalla contrazione di shooting guard.
La passione di Suga per la pallacanestro fa capolino in alcuni brani dei BTS, tra cui la hit Dynamite del 2020, nel cui testo c'è un riferimento a LeBron James e il videoclip è in parte ambientato in un colorato playground, con lo stesso Suga che indossa una canotta della Tune Squad di Space Jam.
Inoltre, nel video BTS 2021 Season's Greetings, dove ogni membro della band crea un personaggio e racconta la sua storia, quello di Suga è basato su un ragazzo di Los Angeles che sogna di arrivare in NBA. Suga è noto per la sua capacità di scrivere e produrre brani senza sosta, è molto attento all'attivismo sociale e alla parità dei diritti e anche in questo ruolo con la NBA profonde il massimo impegno.
Suga ha collaborato con la NBA e il brand di abbigliamento sportivo Mitchell & Ness per il lancio, a fine agosto, di una capsule collection. Ha fornito un input creativo alla realizzazione di t-shirt, felpe con cappuccio, giubbotti, pantaloncini e cappellini di sei squadre: Brooklyn Nets, Chicago Bulls, Golden State Warriors, Los Angeles Clippers, Los Angeles Lakers, New York Knicks. Non scelte a caso, ma in base alle città toccate durante il tour di lancio di D-Day, il suo album da solista. Lui si presenta come Agust D (D sta per Daegu, sua città natale) e nel design sono presenti motivi ispirati al disco.
In fondo, lo sappiamo bene, che si tratti di BTS o NBA tutto si muove in funzione del business. Ma nessun denaro potrà cancellare la bellezza della frase in cui si identifica il giovane artista coreano:
Se ti rende felice, allora è per forza qualcosa di importante.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Ancora una cosa di musica: Lillard ha dato l’addio a Portland con un pezzo rap, Farewell. Ascoltalo qui.
Rucker Park in tutto il suo splendore negli scatti di Matthias Storgaard.
Ennio Terrasi Borghesan ha seguito i Mondiali a Manila per L'Ultimo Uomo: qui racconta la vigilia di Serbia-Italia, trascorsa a contatto con lo staff di coach Pozzecco.
Puntata speciale del podcast Afternoon: gli Azzurri omaggiano Gigi Datome.
Pistoia Basket 2000 e Gonzaga University insieme per tre anni: una collaborazione inedita per la pallacanestro italiana. Scopri di più.
Alessandro Maggi di Sportando e Simone Mazzola di Backdoor Podcast hanno intervistato il presidente LBA Umberto Gandini.
Ed è arrivato pure Fanta LBA, il fantabasket della Serie A: scopri come giocare!
La NBA ha reso free il documentario su Bologna della serie Hoop Cities.
E anche quelli su Parigi, Istanbul, Belgrado ecc. Qui la playlist, se non sapessi come passare una giornata di pioggia.
Con 11 titoli in 38 stagioni alla guida di Connecticut, Geno Auriemma - nativo di Montella, provincia di Avellino - è l'allenatore più vincente nel basket femminile NCAA. Lo ha intervistato Isabella Agostinelli per BasketballNcaa.com.
Su Rivista Undici Giorgia Bernardini, ex giocatrice e oggi autrice, ha scritto un bel memoir su cosa significa essere una ragazza con la passione per il basket.
Anna Ghisolfi, da giocatrice a chef: la sua storia su Reporter Gourmet raccontata da Chiara Di Paola.
La passione di Shaquille O'Neal per la polizia è cosa nota, tanto che ai tempi di Miami era persino entrato in servizio. Guardalo oggi nello spot della polizia portuale di Los Angeles.
Un’intervista approfondita di Jvan Sica a Simone Marcuzzi, autore del libro LeBron James è l'America, per il blog Letteratura Sportiva: da leggere qui.
E questa è la mia recensione su Never Ending Season.
Vita, carriera e passione per il basket di PJ Tucker attraverso la sua infinita collezione di scarpe: così Max Resetar di SLAM. (in inglese)
Il potere della narrazione NBA: il noto podcaster, autore tv e giornalista Pablo Trincia ne parla con Dario Vismara di Sky Sport sul podcast Air Vismara.
Double Clutch, negozio ed e-commerce specializzato in basket fondato a Verona da Luca Quattrone 10 anni fa, è stato acquisito da Grosbasket. Qui il comunicato dell'accordo.
8000 tifosi in un'arena all'aperto a Belgrado per l'amichevole Partizan-Fuenlabrada: perché? Ecco storia e immagini, clamorose.
Guarda il trailer del documentario Dino Meneghin. Storia di una leggenda di Samuele Rossi.
Yorgos Lanthimos, il regista greco vincitore del Leone d'oro alla Mostra di Venezia, ha un brevissimo passato da giocatore nella massima serie ellenica: ne parla qui Antigoni Zachari di Eurohoops. (in inglese)
Grazie e complimenti a Guido Guida della newsletter Spicchi d’Arancia per lo straordinario Italian Basketball Register 2023-24, disponibile esclusivamente sul canale Telegram. Per info: staff@spicchidarancia.it.
Per finire, se passi da Bologna fino al 18 ottobre non perdere Basket Beyond Borders, la mostra del fotografo Matteo Marchi.
Conclusioni
Eccoci alla fine di questo numero 33 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter. Mi raccomando, spargi la voce!
Ti ricordo che puoi sostenere Galis offrendomi un “caffè virtuale” qui.
Ti invito inoltre a seguirmi sul web, su Instagram e su Facebook. Non esitare a scrivermi per qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno.
Questo, invece, è il link per acquistare il mio libro Il parquet lucido. Storie di basket.
Trovi Galis anche su MINDIT, piattaforma che riunisce newsletter di qualità. L’app gratuita è disponibile per Android e iOS.
Se non sei ancora iscritto a Galis e stai leggendo queste righe perché qualcuno te l'ha inoltrata, fallo qui: la riceverai comodamente (e gratis) nella tua mail, ogni ultimo giorno del mese. Oppure iscriviti direttamente su MINDIT.
È tutto, ci vediamo il 31 ottobre. Ciao!