We believe
#16 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi alcune pillole di primavera su playoff, Golden State e molto altro ancora
Ciao, se la palla a spicchi è la stella che guida le tue giornate, allora sei nel posto giusto, almeno spero.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il sedicesimo numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
Nell'ultima uscita (se non l'hai ancora letta, recuperala qui) ti ho raccontato storie di NCAA e March Madness e un problema di editing che ho trovato in molti libri di pallacanestro.
Oggi, invece, non ci sarà un tema principale: come già capitato altre volte, ti propongo un po' di pillole di primavera. E, alla fine, il consueto Shootaround. Sei pronto? Game time!
Tempo di playoff
Primavera, dicevo. La stagione destabilizzante per antonomasia. Quella in cui un giorno hai energie da vendere, mentre l'indomani non ti alzeresti dal letto, o viceversa. Quella che un giorno ti fa assaggiare l'estate, e qualche ora dopo tiri di nuovo fuori il giubbotto pesante. La stagione degli innamoramenti, ma anche di clamorosi scorni.
Senti poi lo sport cosa ti combina: gran parte dei campionati che iniziano in autunno vivono la loro fase cruciale proprio in primavera e spesso lo fanno attraverso i playoff. NBA, Eurolega, Serie A si decidono nei mesi più lunatici dell'anno.
Che sfida crudele, non trovi? Il periodo in cui sono richieste la forma migliore e la massima presenza di spirito, va a ricadere in settimane in cui l'attimo di “abbiocco” è sempre in agguato e le giornate sono un po' ballerine. Il tutto si fa ancor più difficile se consideri che c'è pure la stanchezza di un'intera stagione – in questo caso sportiva e non meteorologica – sulle spalle.
Tuttavia, se guardi bene, la primavera offre un'allettante prospettiva a chi si gioca un risultato, un traguardo. Se sai gestire le energie e sfruttare al meglio ciò che incontri lungo il cammino, in primavera puoi sbocciare definitivamente e lanciarti verso il sole, scoprire nuovi mondi e vivere i momenti più belli ed esaltanti. Non per niente, è la stagione della fioritura, dell'ultimo sforzo prima della meritata estate.
Per questo credo che i playoff non siano solo un freddo bracket da riempire, ma un incredibile contenitore di emozioni: vittoria, sconfitta, apoteosi, delusione, sorpresa, affermazione. Le partite più emozionanti, le giocate che restano impresse nella storia, le sorprese più inaspettate appartengono di solito a questa fase, alla postseason. È come se tutto ricominciasse da capo: per questo è richiesto un livello più alto. Per questo devi saper affrontare la primavera, nello sport come nella vita. Ed è nei playoff che i campioni autentici elevano il loro rendimento. Dipende tutto dalla condizione psico-fisica: nei tornei brevi, vince chi sta meglio in quel determinato frangente.
Fine del mio sproloquio filosofico, andiamo avanti con la newsletter!
Un colore per la storia
Parlando di sorprese nei playoff, uno degli upset che più mi piace ricordare è quello avvenuto in NBA nel 2007, quando al primo turno i Golden State Warriors, qualificatisi con l'ottavo seed, eliminarono contro ogni previsione i Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki, che vi erano entrati trionfalmente con il miglior record della regular season ed erano i favoriti per il titolo. Nulla contro il grandissimo Dirk, ovviamente, uno dei miei giocatori preferiti in assoluto, che avrebbe dovuto aspettare altri quattro anni per vincere il suo primo e unico anello di campione. Ma ciò che successe in quella primavera fu davvero entusiasmante.
Senza aver niente da perdere e in un ottimo momento di forma che consentiva di praticare un basket a ritmi elevati, la squadra allora allenata da Don Nelson e guidata in campo da Baron Davis – c'erano anche, tra gli altri, dei “duri” come Monta Ellis, Al Harrington, Stephen Jackson, Matt Barnes – giocarono una serie ad altissima intensità, passando alla storia come gli Warriors del We believe.
A sospingerli, infatti, c'era una Oracle Arena di Oakland talmente rumorosa e gremita che rappresentò davvero il proverbiale sesto uomo in campo. Tutta quella gente indossava una maglietta gialla con sopra scritto We believe, “noi (ci) crediamo”, slogan coniato dal reparto marketing degli Warriors per vivere al massimo quell'inatteso finale di stagione su cui pochi avrebbero scommesso in partenza. La Oracle divenne persino glamour attirando in massa cantanti, attori e attrici del circondario, tra cui fece la sua figura Jessica Alba, la Donna Invisibile de I Fantastici 4.
Il We believe fu un fuoco di paglia in mezzo a stagioni mediocri, dato che Golden State uscirà nel turno successivo per mano degli Utah Jazz e tornerà ai playoff solo nel 2012, quando in squadra ci saranno già Steph Curry e Klay Thompson. In ogni caso, più che altro a essere ricordata fu proprio l'atmosfera di un’arena tutta d’oro, evidenziando una pratica che poi diventerà normale per le squadre NBA che disputano i playoff.
Mi avrai sentito dire più volte, e lo avrai sentito dire a molti altri, che gli americani sono il top assoluto nel marketing sportivo, in particolare nel creare e raccontare l'evento. E nei playoff le franchigie NBA si presentano in una veste diversa dall'ordinario.
Colorano gli spalti della stessa tinta “utilizzando” i fan, ciascuno dei quali trova sul proprio seggiolino una t-shirt da indossare durante la partita, di un colore scelto tra quelli del club, non necessariamente il principale. Sopra questa maglia è stampato, in un wordmark di design, lo slogan scelto per la campagna playoff, come il We believe di cui sopra, ma ce ne sono anche altri ben riusciti.
Penso al White hot con cui Miami Heat trasformano al “calor bianco” la propria arena, oppure il See red dei Chicago Bulls, che gioca meravigliosamente sull'associazione tra i tori e il rosso, uno dei due colori base della squadra. Come vedi, la lingua inglese propende a semplificare espressioni e vocabolario e si presta a meraviglia per creare locuzioni tanto brevi quanto evocative. Spesso lo slogan dei playoff è lo stesso che ogni franchigia mostra per l'intera stagione, come il Feer the Deer dei Milwaukee Bucks, lo storico Strength in numbers ancora degli Warriors (nei playoff 2022 sono invece Gold Blooded), il Take note degli Utah Jazz, il We The North dei Toronto Raptors e così via.
Con questo sistema, si crea una fortissima simbiosi tra squadra e tifosi nel momento più importante dell'anno. Il risultato è un'identità compatta e riconoscibile, un colpo d'occhio che non si limita all'aspetto esteriore, ma esprime il concetto di una squadra in missione, che vuole fare la storia coinvolgendo la sua gente e creando un tutt'uno tra spalti e parquet. Giocatori e pubblico uniti per la vittoria. È come dire: siamo ai playoff, possiamo fare la storia, sosteneteci e noi vi rendiamo partecipi di questa storia. Perché quando arrivi fin lì, anche se non sei il favorito, l'unica cosa che conta è soltanto vincere.
Golden State Entertainment
Restiamo in tema di marketing, e restiamo in tema Golden State Warriors. Oggi i club sportivi si configurano sempre più come media company. Realtà creatrici di contenuti finalizzati a un intenso coinvolgimento dei fan, attraverso tutti i canali a disposizione. L'esigenza viene dai tifosi stessi: viviamo in un'epoca in cui il pubblico è caratterizzato da un elevatissimo tasso di disattenzione, e quindi è esso stesso che richiede, anche inconsciamente, contenuti ad alto grado di engagement e fidelizzazione, che lo facciano sentire in ogni momento parte integrante della squadra che sostiene.
Anche sotto questo aspetto le franchigie NBA occupano una posizione d'avanguardia. E tali sono gli Warriors, che non solo dal punto di vista geografico ma anche in quanto a spirito e mentalità tengono a presentarsi come la squadra della Silicon Valley. Dopo essere stati il primo club professionistico a lanciare, ormai oltre un anno fa, una propria collezione di NFT – sull'argomento crypto, se vuoi, rileggiti il numero 13 di Galis – adesso hanno varato la propria società di entertainment, che si chiama appunto Golden State Entertainment (il sito è questo, per farti un'idea).
Cosa vogliono fare con questa company? Semplice: storytelling. Raccontare storie coinvolgenti, che vadano anche oltre l'ambito sportivo. Storie di persone e realtà che incarnano i principi e la cultura con cui gli Warriors si identificano. In concreto, produrranno film, documentari e musica, attraverso importanti collaborazioni sia con esponenti culturali della Bay Area che di tutto il mondo. Recente, ad esempio, è la partnership con BamBam, la star del K-pop con cui è stata messa sul mercato una linea di merchandising. Il capo di Golden State Entertainment è David Kelly, avvocato e CLO (Chief Legal Officer) degli Warriors, cioè il responsabile dell'ufficio legale della franchigia, e che inoltre ha trascorsi in campo musicale.
Insomma dalle parti di San Francisco le novità non mancano mai. Così, mentre la squadra sembra aver trovato in Jordan Poole il terzo Splash Brother, rigenerandosi ancora una volta, è stata annunciata una nuova collezione di NFT ai quali saranno associati bonus speciali per i fan, come un giro sul pullman da parata degli Warriors, biglietti per le partite, cimeli autografati e altre robe del genere. La particolarità è che, ogni volta che la squadra vincerà una serie di playoff, si sbloccheranno nuovi benefit: l'ennesima dimostrazione di ottimismo e fiducia di un team che guarda sempre avanti.
All'ultimo stadio
La stagione NCAA è finita con la vittoria di Kansas in rimonta su North Carolina, che a sua volta in semifinale aveva eliminato i rivali di Duke, mettendo fine alla carriera di Coach K. A riprova, semmai ce ne fosse bisogno, che non sempre le cose vanno come nei film.
A ospitare la Final Four – la quarta presente era Villanova, mai in partita contro i futuri campioni – è stato il Caesars Superdome di New Orleans, gigantesco stadio coperto casa dei Saints di football NFL e abilitato per 73.432 spettatori. Sorge accanto allo Smoothie King Center, l'arena dei Pelicans, come hanno più volte mostrato le immagini aeree trasmesse durante gli intervalli da ESPN Player e in italiano da Helbiz Live, piattaforma che ci sta prendendo gusto dato che ha acquisito anche la MLB di baseball (a proposito, let's go Mets!).
Un tempo si diceva che negli Stati Uniti fosse tutto più grande. Una concezione che emerge ancora forte e chiara nella Final Four NCAA, disputata in uno stadio che dal 2009, per regolamento, deve disporre di almeno 70.000 posti. È come se in Italia giocassero la finale scudetto giovanile a San Siro o all'Olimpico, facendo un paragone molto terra terra.
Il basket è sport da arene, non da stadi, anche se quelle NBA e molte di college si aggirano sui 20.000 posti o li superano. Ma giocare in quello che siamo abituati a intendere come stadio è comunque qualcosa di diverso. Tra l'altro, immagino i problemi di visibilità per chi prende posto nelle file più lontane, e non credo che sollevare leggermente il campo – hai notato il gradino di circa un metro tra parquet e panchine? – migliori più di tanto la situazione. Tuttavia ben comprendo che ciò deriva da un'elevatissima richiesta di biglietti, e quindi dal ritorno economico di un evento sportivo che negli USA è secondo solo al Super Bowl. Fermo restando che per me il basket va giocato nei palazzetti, punto.
Così è stato fino al 1997, poi la NCAA ha richiesto impianti coperti dalla capienza minima di 40.000 posti. Nel 1996 la Meadowlands Arena del New Jersey è stata quindi l'ultima arena “di basket” a ospitare la Final Four. E come ho detto prima, dal 2009 si è passati al minimo di 70.000 spettatori, con la conseguenza che in tutta la nazione sono solo undici gli impianti idonei, tra cui l'AT&T Stadium di Arlington, Texas, il mega stadio dei Dallas Cowboys, il più grande in cui si sia mai giocato a basket, con 108.713 spettatori (ha ospitato All-Star Game NBA 2010 e Final Four NCAA 2014).
Gli altri sono in città del sud dove il football è religione come St. Louis, Atlanta, Houston, New Orleans, Las Vegas, Glendale (Arizona), più il vecchio Alamodome di San Antonio, o del nord come Minneapolis, Detroit e Indianapolis. Insomma, scordiamoci di vedere, per ora, Final Four a New York, Charlotte o Kansas City, e solo grazie al nuovissimo SoFi Stadium di Inglewood adesso può ambire a ospitarla Los Angeles.
Sport e veli
Cambiamo decisamente argomento, come dicono quelli dei tg. Ti segnalo un libro uscito da pochi giorni per la casa editrice Capovolte: Velata. Hijab, sport e autodeterminazione di Giorgia Bernardini. Autrice che, oltre ad avere un passato da giocatrice di basket, scrive per L'Ultimo Uomo e ha fondato Zarina, affermata newsletter interamente dedicata allo sport femminile.
Il volume, con bella cover di Lorena Spurio, affronta la delicata questione della pratica sportiva da parte delle atlete musulmane, la cui cultura, tradizione e credo religioso entra in contrasto con regolamenti che vietano l'uso dello hijab, il velo sul capo, durante le competizioni. E quindi con l'immagine univoca della donna sportiva proposta dal pensiero occidentale.
Il tema è sugli scudi da diversi anni ormai. Ricordo, ad esempio, quando i Toronto Raptors, in collaborazione con Nike, introdussero nel proprio merchandising ufficiale un hijab da gara, mutuando l'idea dalle Hijabi Ballers, associazione attiva da oltre dieci anni nella metropoli canadese che promuove la pratica sportiva presso le donne di religione islamica (ne scrivevo qui).
Tornando a Velata, Giorgia Bernardini racconta le storie di quattro atlete – le pugili Ramla Ali e Hasna Bouyij, la calciatrice Khalida Popal e la cestista Asma Elbadawi, quest'ultima volto Adidas – e della rivoluzione che stanno portando avanti per autodeterminarsi coniugando sport, religione, cultura, passione. E con loro sempre più atlete musulmane lottano per non dover più scegliere tra velo e competizione, trasformandosi in attiviste e punti di riferimento per le giovani di domani.
Se l'argomento ti interessa, puoi acquistare il libro qui.
Ancora su Asma Elbadawi e sulla sua opposizione al divieto di hijab della FIBA: è stata recentemente protagonista di uno spot della campagna I'm Possible di Adidas, realizzato a Dubai. Ecco il video (grazie a Giovanna Di Troia del blog GioDiT per avermelo fatto conoscere... sì, ogni tanto qualcosa sfugge anche a me!).
Affleck-Damon, uomini Nike
Dai libri passiamo al cinema, perché The Hollywood Reporter ha dato la notizia di un prossimo film ambientato nel mondo del marketing sportivo e che riguarda il basket da vicino. Protagoniste due grandi star: Ben Affleck, che sarà anche il regista, e Matt Damon, rispettivamente nei panni di Phil Knight, il fondatore di Nike, e di Sonny Vaccaro. Quest'ultimo è lo spregiudicato e visionario manager che fu decisivo per fare in modo che Michael Jordan, nel 1984, all'alba della sua carriera NBA, firmasse con lo Swoosh, cambiando per sempre la storia delle scarpe da basket e delle relazioni tra gli atleti e i marchi di abbigliamento sportivo.
Proprio su questa vicenda è imperniata la trama: da come è stata annunciata, sembrerebbe una classica storia americana di pronostici ribaltati, dal momento che la concorrenza per assicurarsi Jordan era agguerrita e che brand come Adidas, Converse e Reebok all'epoca partivano da posizioni molto più avvantaggiate rispetto a Nike. Il film, ancora senza titolo, evidenzia quindi la determinazione di Vaccaro nell'arrivare a quella firma, raccontando il grande e prolungato sforzo dell'azienda dell’Oregon per mettere sotto contratto l'uomo, all'epoca ventunenne, destinato a diventare un’icona planetaria. L'operazione trasformò l'industria delle sneaker, avvicinandola a come la intendiamo oggi.
Chi interpreta Jordan? Nessuno, perché non comparirà mai. Del resto la sua immagine è ultra protetta da una “cortina di ferro” di diritti e contro-diritti, non è stato presente neppure nei video celebrativi dei 75 anni della NBA, figuriamoci se si faceva interpretare da qualcuno... Sarà invece una figura quasi mitologica che aleggerà per tutto il film e sarà presente attraverso le parole di familiari, amici, consulenti e allenatori costantemente “tampinati” da Sonny Vaccaro.
Qualche connection, ora: i produttori saranno Amazon Studios, Skydance Sports e Mandalay Pictures, quest'ultima proprietà di Peter Guber che a sua volta, insieme a Joe Lacob, è uno dei due owner dei Golden State Warriors. Ed è bostoniano, come Matt Damon. Il film si basa anche su Sole Man, uno dei documentari ESPN della serie 30 for 30 sulla figura di Vaccaro (oggi, come Phil Knight, ha più di ottant'anni). Se vuoi conoscere la storia di Nike, ti consiglio di leggere il bestseller L'arte della vittoria, che è appunto l'autobiografia di Knight nonché la storia di un'azienda narrata in maniera diversa dal solito.
Ben Affleck recita nuovamente in un film di basket, dopo Tornare a vincere (che ho recensito qui), e per la prima volta dirigerà l'amico Damon, non nuovo a pellicole di sport: La leggenda di Bagger Vance (golf), Invictus (rugby), Le Mans '66 (automobilismo) e un cameo in Scoprendo Forrester (basket).
Madonna del basket
No, non è un'imprecazione: esiste davvero. La pallacanestro italiana ha una patrona. Si tratta della Madonna del Ponte, venerata nell'omonimo santuario di Porretta Terme, sull'Appennino emiliano, località turistica sede del comune di Alto Reno Terme, nella città metropolitana di Bologna. La chiesa risale al '500 e al suo interno, dal 1956, c'è una cappella dedicata ai cestisti, piena di doni votivi come maglie, palloni e cimeli di ogni tipo che rappresentano il nostro sport.
Adesso il Vaticano ha ufficializzato la cosa, ratificando il pronunciamento della Conferenza Episcopale Italiana (la potente assemblea dei vescovi) del 27 maggio 2021 e concludendo il lungo iter canonico: non ti credere che là siano meno burocratizzati dell'Italia, anzi. Ci sono anche altri sport che hanno la loro protettrice ufficiale: la scherma ha Santa Veronica Giuliani, a cui è dedicata una chiesa a Mercatello sul Metauro (Pesaro-Urbino), e le Marche infatti hanno una grande tradizione in questa disciplina. La Madonna del Ghisallo di Magreglio, presso Como, zona di arrivi in salita, è la patrona del ciclismo. Santa Rita da Cascia, invece, lo è del baseball ed è una storia americana che se guardi il film The Rookie. Un sogno, una vittoria con Dennis Quaid potrai scoprire.
Per quanto riguarda la Madonna del basket – su questo sito ci sono tutte le informazioni – l'iniziativa per il riconoscimento è stata portata avanti dalla FIP e lo scorso dicembre Jason Horowitz del New York Times è stato sul posto per un servizio, che trovi qui (in inglese, solo abbonati se hai esaurito la quota di articoli gratuiti).
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Cominciamo gustandoci il video della serie NBA Lane dedicato ai playoff. Spoiler: c'è di nuovo lo Hoopbus, di cui avevo parlato su Galis, qui.
Torniamo alla NCAA: su L'Ultimo Uomo i tanti spunti della Final Four 2022 raccontati da Andrea Beltrama, che l'ha seguita dalle parti di Villanova.
Venticinque anni fa, invece, Mike Bibby vinse il titolo con Arizona indossando un modello di scarpe mai visto prima: le Nike Foamposite. Se vuoi rileggere tutta la storia, ti ripropongo il numero 2 di Galis.
C'è la NCAA e c'è la NAIA, lega di cui fanno parte piccole università. Qui alla Rochester University, studia e gioca Federico Gallinari, fratello di Danilo, che ha descritto vita e sport di college a Gianmarco Pacione di Athleta Magazine.
Dal 1986 la NBA ha un logo specifico per le Finals. Quest'anno si torna all'antico, rispolverando il corsivo. Qui su Sky Sport tutta l'evoluzione di questi loghi.
Dario Costa ha intervistato per L'Ultimo Uomo i fratelli Wagner – Moritz e Franz – degli Orlando Magic, che tra l’altro hanno parlato delle differenze tra Germania e Stati Uniti.
In NBA ci sono figure che aiutano giocatori e allenatori a guardare le partite attraverso gli occhi di un arbitro, al fine di migliorare la comprensione delle scelte e il dialogo. Spiega tutto Ben Dowsett di ESPN (in inglese).
Ma quanto è artistica questa foto di Joe Murphy? (@joemurphyphoto)
Parliamo ora di divise NBA.
Qui ho selezionato le 10 più belle. Sono solo i miei gusti personali, ok?
A Reggio Emilia c'è la mostra di 42100jersey, progetto fotografico e collezionistico dedicato alle maglie NBA. Qui tutte le info.
E gli Washington Wizards hanno già svelato la City Edition della prossima stagione: un omaggio alla fioritura dei ciliegi! Ti piace?
Rebranding per la G League Ignite, la squadra composta da prospetti NBA in attesa di essere eleggibili per il Draft. Nuovi logo, font e colori sono spiegati qui (in inglese).
Vuoi sapere come è nato il logo di Giannis Antetokounmpo? Te lo illustra Nick DePaula su Boardroom (in inglese).
Scarpe Jordan Brand: arrivano la Luka 1 (qui sul sito Nike) e una versione speciale della Zion 1 in collaborazione con l'anime giapponese Naruto (qui su Outpump).
Luca Leone ha scritto il romanzo sportivo del basket di strada, Harlem. Questa è la mia recensione.
Guarda qui l'esplosione di colori del playground d'arte realizzato a Ciserano, vicino Bergamo, da StreetArtBall Project.
Terrell McIntyre ha lasciato grandi ricordi nel basket italiano, tra cui un 10/10 da tre in una sola partita. Cesare Milanti di Overtime ne ripercorre la carriera.
Il fotografo sportivo nativo-americano Stacy Revere racconta ad Andscape come ha iniziato a fare questo lavoro (in inglese).
Qui puoi sfogliare uno Sports Illustrated del 1992 con Bird e Magic sulla cover.
Se non stai attento, Josè Alvarado ti punta così e ti ruba palla. Lo ha fatto pure a Chris Paul. A me ricorda i velociraptor di Jurassic Park!
Conclusioni
E così siamo giunti alla fine di questo numero 16 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter.
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È tutto, ci vediamo il 31 maggio, se non vieni eliminato prima dai playoff. Ciao!