Foamposite e altre storie
#2 - Basket, cultura, lifestyle: qui trovi una scarpa rivoluzionaria, una community da seguire, ubiquità digitale e consigli vari
Benvenuto, se sei un nuovo iscritto, o ben ritrovato, se c'eri già. In ogni caso, se sei qui, probabilmente è perché il basket è il tuo stile di vita.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il secondo numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, in cui ti parlo di basket, cultura e lifestyle.
La volta scorsa, nel numero d'esordio (se te lo sei perso, recuperalo qui), ho scritto del perché del nome Galis, di Seattle, dei murales dedicati a Kobe, di Jamel Thomas e di altre cose.
Galis è gratuita ed esce ogni ultimo giorno del mese. Se non sei ancora iscritto, e la stai leggendo perché qualcuno te l'ha inoltrata o ci sei entrato da un link, puoi farlo qui. Mi fa molto piacere averti a bordo e questa non sarà mai una newsletter invadente né acchiappa click.
Visto che è nata da poco, se mi aiuti a farla conoscere presso altri appassionati, te ne sarei molto grato. Puoi anche condividerla da questo pulsante, se credi.
Come ti ho detto, sia in Galis che in Never Ending Season esploro le connessioni tra la pallacanestro e tutto ciò che le ruota intorno, nella società contemporanea e nella nostra vita quotidiana, dai libri alla cultura pop, dal cinema ai media, dall'arte al design, e così via.
Quindi, se cerchi highlights, analisi tecnico-tattiche o news di mercato, mi dispiace dirti che questo non è il posto per te. Ci sono molti altri siti, podcast, newsletter, alcuni dei quali davvero validi, che possono soddisfare le tue esigenze. Qui preferisco raccontarti il basket in un quadro più ampio rispetto al pur sacrosanto parquet.
Entriamo nel vivo, allora. Domani è già marzo. E marzo, come penso tu sappia, soprattutto dalla metà in poi è il mese clou del basket universitario americano: è tempo di Torneo NCAA, noto come March Madness, “follia di marzo” o anche Big Dance, il “grande ballo”.
Infatti, questo torneo dal sapore antico e dalle emozioni sempre nuove, con la sua spietata formula a eliminazione diretta in gara secca, fa davvero impazzire gli Stati Uniti. È parte della loro cultura sportiva e non solo.
Quest'anno, purtroppo, impazziranno un po' meno, a causa della perdurante pandemia. Il torneo, interdetto al pubblico, si svolgerà in una sorta di “bolla diffusa”, tutta in Indiana, lo stato del basket per eccellenza. Una soluzione suggestiva: già nel numero 1 di Galis ti avevo suggerito questo mio pezzo sulle storiche arene che ospiteranno le partite. È comunque un netto passo avanti rispetto alla cancellazione di un anno fa.
Ora, stai a vedere cosa ti combino: unisco l'occasione della March Madness con un aspetto irrinunciabile del basketball lifestyle, cioè le scarpe (o sneakers, se vuoi chiamarle così), per raccontarti una storia che, oltretutto, affonda le sue radici negli iconici anni Novanta. Prima ancora, però, ho qualcosa di me da dirti.
Le mie prime scarpe da basket
Sai quali sono state le mie prime scarpe da basket, almeno quelle di cui ho memoria? Le Adidas Enforcer! Era il 1995 e frequentavo la scuola media. Forse te le ricordi: belle massicce, scamosciate, le tre stripes bianche, una cinghia con chiusura a “strap” che stringeva la caviglia. Erano disponibili in tre versioni di base: rosse, blu e nere. Le mie erano blu.
Quelle sono state le mie uniche Adidas, perché presto mi innamorai di Nike, senza un motivo preciso, come spesso accade con i brand che ci accompagnano da sempre. Forse per quei fantastici spot di calcio con Cantona e Ronaldo, o il Frozen Moment con Michael Jordan. Insomma, è innegabile che Nike già allora fosse all'avanguardia nel sapersi raccontare. Oh, sia chiaro, non ho nulla contro gli altri marchi. Ma ognuno di noi, intrinsecamente, ha i suoi preferiti, niente di più.
Intanto, visto che l'ho nominato, mi sembra doveroso riproportelo.
Sta di fatto che nell'autunno del 1997 ebbi le mie prime Nike. Non indovinerai mai il modello. Non ero un esperto, e non potevo neppure far spendere una fortuna ai miei genitori. Ne trovai uno, nuovo ma poco conosciuto, della linea Uptempo. È rimasto talmente nell'ombra che ho faticato non poco, oggi, a ritrovare un’immagine decente sul web.
Sto parlando delle Nike Air Pure Uptempo, nere con suola e dettagli bianchi e blu elettrico. In realtà non sapevo nemmeno che si chiamassero così, l'ho scoperto parecchio più tardi. L'unica certezza era che mi attraevano un sacco. In campo non ero granché, ma con quelle scarpe mi sentivo come se avessi una marcia in più. Le ho indossate per anni, ovunque, in palestra, a scuola, a casa, in giro.
Fu proprio nel 1997 che iniziai a seguire il basket con continuità. Avevo quindici anni e fino ad allora, seppur lo praticassi dalla seconda elementare, non ne sapevo molto all'infuori del mio piccolo. Ma da lì in poi il mio sguardo cambiò: stava cominciando la stagione più memorabile di sempre, la 1997-98. In NBA, quella di The Last Dance, e do per scontato che tu abbia visto la serie Netflix. In Italia, quella dei dieci derby tra Virtus e Fortitudo Bologna, tra l'altro ben raccontata da Dario Ronzulli nel libro Il tiro da quattro, che ho recensito qui (te lo consiglio, va via che è un piacere). Ecco, posso dire che la stagione 1997-98 è stata per me The First Dance...
Chiudo qui questa divagazione personale, se no ti annoio. Simili riflessioni le ritrovi, in maniera più approfondita, nel capitolo iniziale del mio libro Il parquet lucido. Storie di basket. Dopo ti dirò come e dove acquistarlo, se ti interessa.
Rievocare il 1997, però, mi serviva per introdurre la storia di cui ti ho accennato. La storia di un modello rivoluzionario di scarpa che, seppur non al livello delle Air Jordan, ha comunque segnato l'evoluzione della sneaker culture: Nike Air Foamposite One.
Di rivoluzioni e pronostici sovvertiti
A fondo campo a farsi i suicidi, rap sui cd
già lo spingevo quando averci le Foamposite era un lusso.
Questi versi li rappa Ghemon, grande cultore di basket, nella traccia We love this game. La conosci? È quella in cui, insieme a MadBuddy, Kiave e Johnny Marsiglia, rende omaggio al gioco. Il videoclip venne girato nel 2014, in occasione della tappa milanese di The Search for the Baddest, evento di Nike e House of Hoops. Eccolo.
Coinvolgente, vero? Un brano che celebra il basket passione di una vita, nonché inesauribile fonte di ispirazione. E quando Ghemon nomina le Foamposite allude al loro prezzo non esattamente abbordabile. In seguito ci sono state oltre cento versioni, fino ai giorni nostri.
Al tempo in cui arrivarono sul mercato, ormai quasi venticinque anni fa, l'attenzione verso le sneakers non era ancora quella di oggi. Le cose, tuttavia, stavano cambiando, e non solo grazie alle Air Jordan. L'influenza reciproca tra basket e cultura urban/street diventava sempre più forte, anche in seguito alla rivoluzione di stile introdotta dai Fab Five di Michigan e subito cavalcata dai brand sportivi. Come Nike, appunto.
Molti associano la Foamposite a Penny Hardaway. Giusto: è stata la sua seconda signature shoe (dopo la Air Penny) e l'ha resa celebre. Il primo a indossarla in una partita, quando ancora doveva essere messa in commercio, è stato però Mike Bibby con Arizona. Una “scarpa del futuro”, piombata sulla scena in modo inaspettato, così come inaspettati furono quei Wildcats che, nonostante il vento contrario dei pronostici, vinsero il Torneo NCAA 1997 laureandosi campioni nazionali del college basketball.
Di Arizona a volte ci si dimentica, ma è uno dei programmi di basket più importanti degli USA. Laggiù a Tucson – pronuncia corretta Tuzòn – nel bel mezzo del deserto sono sbocciati fior di giocatori NBA. Se vuoi sapere quali, divertiti su Google e su Wikipedia, perché l'elenco è piuttosto lungo. Da lì, tanto per agganciarci all'attualità, è uscito anche Nico Mannion, scelto da Golden State al Draft 2020. Circa tre mesi prima, a ottantasei anni quasi compiuti, era scomparso Lute Olson, che per ventitré stagioni ha allenato i Wildcats portandoli quattro volte alla Final Four e, appunto, al titolo vinto nel 1997.
Di quel quintetto la matricola Bibby era il playmaker titolare, o point guard, se preferisci il termine americano. Al suo fianco, Miles Simon, guardia, miglior giocatore della Final Four nonostante fosse reduce da lunghe assenze per problemi accademici e fisici (sostituito da Jason Terry). Ala piccola Michael Dickerson e due ali grandi sotto canestro: Bennett Davison e AJ Bramlett. Voglio anche ricordarti che sia Simon che Davison hanno poi giocato in Italia: il primo a Livorno, Varese e Reggio Emilia (oggi è nientemeno che assistente ai Lakers), il secondo a Napoli, Bologna (Virtus), Milano e Scafati.
Nike considerava il basket dei college una sorta di laboratorio per sperimentare innovazioni. E, inoltre, aveva abbattuto più di un muro penetrando, con le sue sponsorizzazioni di squadre e allenatori, nella tradizionalista NCAA. In quel 1996-97 non era infrequente che ai Wildcats venissero forniti prototipi di scarpe da provare sul parquet, o che fossero invitati al quartier generale di Beaverton, Oregon, per il medesimo motivo.
La regular season, seppur iniziata con un'entusiasmante vittoria su North Carolina, una delle favorite con Vince Carter e Antawn Jamison, non fu semplice per Arizona, lontana dal top dei ranking con le sue 19 vittorie e 9 sconfitte. In realtà, coach Olson era solito scegliere gli avversari più ostici per testare il livello dei suoi (se per caso te lo fossi chiesto, in NCAA ogni squadra può costruirsi come vuole una parte del calendario, le cosiddette non-conference games).
In ogni caso, nessuno era disposto a scommettere sulla loro vittoria finale. Nessuno tranne i diretti interessati, che cavalcarono imbattuti nel torneo.
Nei giorni prima delle Sweet 16 a Birmingham, Alabama, in cui Arizona avrebbe affrontato un'altra favorita, la Kansas di Paul Pierce, arrivarono in spogliatoio tre scatole di Nike Air Foamposite One, un modello mai visto prima. Chi le prese? Molti, non fidandosi, declinarono. Due paia andarono alle riserve Quynn Tebbs e Donnell Harris. L'unico titolare a rimanerne folgorato fu proprio Mike Bibby, nonostante in principio le ritenesse scivolose.
Così, il 21 marzo 1997, in parallelo alla primavera fiorì anche Arizona: Kansas battuta di tre punti. La stessa sorte toccò poi a Providence (la squadra di Jamel Thomas, quello della linea di abbigliamento di cui ti ho parlato nello scorso numero), ancora North Carolina e, all'overtime della finalissima, Kentucky. Insomma, in pochi giorni i Wildcats avevano fatto fuori tre delle maggiori potenze del basket universitario. E ai piedi del loro leader c'erano le Foamposite.
Nike aveva puntato sui Wildcats come cavie e si era ritrovata tra le mani una futura star NBA che, con le scarpe ancora da lanciare, aveva vinto il campionato, trascinando una squadra non considerata all’altezza della vittoria finale. La storia giusta per il marketing: esaltare chi, sfavorito, inverte i pronostici funziona sempre.
Hai mai letto L'arte della vittoria di Phil Knight, uscito nel 2016? Io, più di una volta. Sì, prendimi pure per matto, ma è così. Puoi acquistarlo qui. È l'autobiografia del fondatore di Nike. Ma non è una storia aziendale dai toni celebrativi, e Knight non è un guru. È invece un uomo che racconta ostacoli, difficoltà, paure, dubbi, sacrifici, cambiamenti, sofferenze che ha dovuto affrontare, ogni giorno e per anni, per realizzare la sua “idea folle” di ragazzo desideroso di lasciare un segno: creare qualcosa che avrebbe trasformato la propria vita in un gioco, con cui provare in ogni momento l'adrenalina di chi compete nello sport. Infrangendo schemi precostituiti, spingendosi sempre oltre, mettendosi al servizio degli atleti per valorizzare il loro potenziale. Anche rischiando, come fece Nike con Arizona e Bibby con le Foamposite.
Se leggerai il libro, tra i personaggi ti imbatterai in Jeff Johnson, uno degli storici soci di Knight. È colui che, nel 1972, ebbe l'intuizione di chiamare Nike la prima scarpa prodotta in proprio dalla Blue Ribbon, cioè la società fondata da Knight con l'originario obiettivo di rivendere in America scarpe da atletica importate dal Giappone. E fu proprio Johnson a supervisionare il team che, con il designer Eric Avar, produsse la Foamposite.
Per venire incontro alle esigenze di giocatori di basket sempre più rapidi, esplosivi e versatili, la via intrapresa, inevitabile, era quella di ridurre il peso delle scarpe e aumentarne la traspirazione. Con la Foamposite, inoltre, si aprirono le porte a un design totalmente innovativo, ispirato alla corazza degli scarabei: robusta ma leggera. L'idea di base era rendere la scarpa adattabile: grazie al calore sviluppato dal piede in movimento, si sarebbe modellata su di esso. Così si ricorse al poliuretano, attraverso una formula fornita dalla casa automobilistica coreana Daewoo. Curiosità: lo stampo della prima Foamposite era costosissimo, 750.000 dollari, e venne in seguito distrutto perché nessuno credeva che Nike avrebbe prodotto versioni successive di quel modello…
E Penny Hardaway? Non prese molto bene il fatto che le “sue” Foamposite vennero sfoggiate da Bibby prima di lui. Tuttavia soprassedette e, pochi giorni dopo il trionfo di Arizona, le fece debuttare in NBA in una partita degli Orlando Magic al Madison Square Garden di New York.
All'inizio della stagione successiva, la 1997-98, sempre lei, chi si ritrova Penny in spogliatoio? Miles Simon, quello di Arizona, che però non portava le Foamposite. Simon, scelto dai Magic al secondo giro e la cui carriera NBA sarebbe durata appena cinque partite, ricorda che Penny gli disse, benevolmente: «Ragazzo, è fantastico che voi di Arizona abbiate messo prima di me le Nike progettate per me e che ci abbiate vinto il titolo nazionale».
Purtroppo, la realtà smentì quello che sembrava un confortante presagio: Hardaway, di lì a poco, si sfasciò un ginocchio e non tornò mai più il giocatore stellare che era stato fino a quel momento. Resta in ogni caso uno dei simboli della NBA anni Novanta. Probabilmente lo ricorderai pure, con Shaquille O'Neal, tra i protagonisti del film Blue Chips - Basta vincere, di cui ho parlato qui.
Piaciuta questa storia? Andiamo avanti con la newsletter.
Local Hoops, amore globale
Ora ti parlo di Local Hoops. Esiste dal 2015 e lo seguo da tempo. È un piccolo brand di New York, creato dall'esperto di marketing Jon Harary insieme al designer Alex Rhubart, nel nome della passione per la pallacanestro. A mio avviso, è un progetto molto interessante. Si presenta in modo semplice e al tempo stesso diversificato, unendo il basket con la creatività e la condivisione.
Local Hoops è una linea di prodotti acquistabili sullo shop online del sito web: palloni, abbigliamento, cappelli, stampe, persino candele. Ma non è solo questo: vuole essere una community attiva e variegata, online e offline, che racconta storie autentiche di persone che amano il basket e da esso si lasciano ispirare. La parola local associata alla Grande Mela, del resto, lascia decisamente cadere i limiti del suo significato per acquisire un respiro globale e universale, in questo caso nel segno dell'amore per il nostro sport. Sul profilo Instagram, Local Hoops pubblica soprattutto immagini di canestri e playground, di ogni tipo, a NYC come in qualsiasi altro luogo del mondo.
Bella la scelta del tre colori del brand: celeste, rosa, giallo, in tre tenui tonalità pastello, che ben risaltano su sfondi neutri bianchi, grigi o neri. Il logo è la semplice icona di un pallone da basket, un po' come quella che uso io per Never Ending Season e Galis (non sono un graphic designer né posso permettermi di pagarne uno, quindi il logo che vedi qui e sul blog proviene da uno stock di immagini...).
Sul sito, oltre allo store (robetta un po' costosa, va detto), trovi il piatto forte: la sezione Hoop Stories. Contiene interviste a newyorchesi e non, che dal basket hanno tratto profonda ispirazione per avere successo in vari campi ad esso collegati.
Fotografi, giornalisti, creatori di contenuti, trainer, atleti, raccontano il percorso che li ha portati a raggiungere anche vette di alto livello. Storie di uomini e donne il cui comune denominatore è la passione e la dedizione con cui, insieme alla capacità di reagire alle difficoltà e di sfruttare le occasioni, ci si può realizzare in ciò che si ama. Anche senza necessariamente diventare giocatori NBA, privilegio raggiungibile solo da un'infinitesima percentuale di giovani.
Quindi, se ami il basket, ti consiglio di seguire Local Hoops e di leggere le storie di queste persone (ovviamente sono in inglese), provando a immedesimarti in ognuna.
So bene che la realtà degli Stati Uniti è molto diversa dalla nostra e che certe vicende sembrano uscite da un film. Ma mi piace pensare, anche vivendo in un'Italia che spesso pare fatta apposta per ostacolare sogni e aspirazioni, che da questi esempi si possa trarre qualcosa di buono e metterlo in pratica.
Per quanto la società americana sia comunque piena di problemi (ma quale non lo è?), salta davvero all'occhio come, nel loro sistema, lo sport sia considerato non un passatempo, ma un potente strumento di affermazione sociale. E come nello sport giovani e meno giovani trovino un terreno comune in cui inseguire e concretizzare le proprie ambizioni e un ventaglio di opportunità per farlo.
Detto ciò, se a New York hanno chiamato questo progetto Local Hoops, a maggior ragione possiamo credere che tutto il mondo sia un po' paese e che ci sia un po' di America in ciascuno di noi.
Il dono dell'ubiquità digitale
Hai presente Ritorno al futuro II? A un certo punto, nel 2015 – nel 2015! – il Marty McFly quarantasettenne riceve una videochiamata dall’aguzzino Needles su un grande schermo interattivo. Il film è del 1989 e all'epoca telefonare a qualcuno e contemporaneamente vederlo in faccia sembrava fantascientifico. Nel giro di non troppi anni, invece, le cose sono andate di corsa: dalle prime esperienze un po' sfigate dei videofonini - ricordi il fastidiosissimo «Videochiamami!» di Valeria Marini nello spot di una compagnia mobile? - l'arrivo delle connessioni internet veloci, poco dopo il 2000, ha spianato la strada a Skype. E la video call è diventata realtà.
Balzando ai tempi odierni, con la pandemia le video call e i relativi software, da Zoom a Microsoft Teams, da Google Meet al buon vecchio e sempre utile Skype, hanno conosciuto un boom senza precedenti, insieme al fenomeno delle dirette social, implementate da ulteriori applicazioni come Streamyard, che hanno consentito alle persone di parlare tra loro e “incontrarsi” a distanza anche di fronte al pubblico.
Grazie a internet, così, gli esseri umani godono di una sorta di ubiquità digitale: essere presenti in uno o più posti, pur trovandosi fisicamente da un'altra parte. Sembra qualcosa di mistico, e se ci pensi bene un po’ destabilizzante, sotto certi aspetti.
Nel basket, l'esempio più chiaro di questa ubiquità lo abbiamo avuto nella “bolla” NBA di Disney World con i virtual fans. Cioè quegli spettatori, il cui volto compariva sugli schermi LED intorno al campo, che potevano guardare la partita da remoto e interagire con i “vicini di posto”. Lo ha ben raccontato il giornalista Davide Chinellato su La Gazzetta dello Sport, che ha avuto l'opportunità di partecipare. Un'esperienza riproposta in questa stagione dai Golden State Warriors, non a caso una sorta di espressione della Silicon Valley, con la piattaforma Dub Hub. Al Chase Center di San Francisco sono stati posizionati persino schermi nel tunnel degli spogliatoi, in cui ad alcuni fan con accesso vip è consentito di interagire con i giocatori prima della partita. E non è da escludere, quando le arene torneranno aperte, che ci sia modo aggiungere spettatori virtuali a quelli in carne e ossa, sfruttando nuove occasioni di marketing.
L'ubiquità digitale è di aiuto anche ai media che seguono la NBA. Grazie all'accesso via Zoom alle conferenze stampa post partita, i giornalisti – e ce ne sono spesso anche italiani – possono fare domande a giocatori e coach pur senza stare sul posto. Una buona soluzione per conferire maggior qualità a un lavoro che ha estremo bisogno di testimonianze dirette e di originalità. Considerato che ancora non si può tornare a viaggiare, è un discreto compromesso, non trovi?
Difficile prevedere cosa succederà a fine pandemia, se la video call resterà dominante o tornerà ad avere un utilizzo complementare o secondario. Sono piuttosto refrattario alle discussioni sul mondo che non tornerà più quello di prima oppure sì, ma credo che, come in tutte le cose, ci vorrà una notevole dose di equilibrio per far coesistere gli innegabili vantaggi del digitale e dello smart working con l'imprescindibile contatto umano, diretto, vero tra le persone, assolutamente da recuperare. E che per nessun motivo, men che meno per risparmiare, dovrà andare perduto.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Il presidente del consiglio Mario Draghi è un appassionato di basket. Sapevi che giocava pure, da ragazzo? Faceva parte della squadra giovanile dell'Istituto Massimo, la scuola dei gesuiti a Roma dove studiava. Il suo idolo era Bill Bradley e il livello piuttosto alto. C'era infatti – e questo potrebbe stupirti – anche la squadra degli Ex Alunni Massimo, che riuscì addirittura ad arrivare ai vertici nazionali. Nel 1962 vinse la Serie A e approdò nel campionato Elette, categoria che per dieci anni è stata il gradino più elevato del basket italiano. Una testimonianza del fiorente movimento romano di una volta, quando brillavano team come Lazio, Ginnastica Roma e soprattutto Stella Azzurra, nata presso il collegio De Merode, rivale del Massimo.
Hai mai visto il film Gli stagisti del 2013, con Vince Vaughn e Owen Wilson? È l'allegra storia di due disoccupati un po' “boomer” che cercano di reinventarsi grazie a uno stage a Google. Mi è sembrata una commedia molto gradevole, nonché ottima per fare team building. Ci ho trovato un paio di riferimenti al basket NBA. Lascio a te scoprirli, e ti incuriosisco con due indizi: una squadra di colore rosso e un tizio che dice no.
Ora ho per te un po' di contenuti da consigliarti, sia dal mio blog sia dal web.
Se ci hai fatto caso, quest'anno in NCAA la Ivy League non gioca, per la pandemia. E se al momento ti sfugge cosa sia la Ivy League, e ti chiedi quale importanza abbia nel basket, ti rinfresco la memoria qui.
Se invece stai seguendo la G League nella “bolla” di Disney World, ecco un po' di curiosità sulla lega di sviluppo. Ti suggerisco anche la newsletter Who’s Got Next (in inglese) di Keith Schlosser, giornalista che la segue da anni.
Sempre in tema di newsletter, ti segnalo anche Turnover di Matteo Lignelli, che parla spesso di basket. Lui stesso, tra l'altro, spiega in un articolo su Il Foglio che fine ha fatto Siena.
Non ci crederai, ma con la Final Eight di Coppa Italia, ormai un happening del basket di casa nostra, si è mosso qualcosa sul fronte del marketing e della brand identity: questa è la capsule collection di Erreà, marchio che affiancherà LBA fino al 2025.
A proposito, conosci Decathlon, vero? Ora ci troverai anche materiale NBA firmato Tarmak, il brand “interno” della catena francese. NSS Mag ti fa vedere la collezione qui.
Tra le community e i media italiani che seguono la NBA, il canale YouTube NBA Week si è trasformato in BIG 3, con nuovi format, e ci tiene una rubrica anche Riccardo Pratesi de La Gazzetta dello Sport. Pratesi, a sua volta, è direttore di The Shot, dove può capitarti di leggere anche pezzi in inglese. Come questo di David Amoyal sull'importanza dei Celtics nella cultura sportiva di Boston.
Claudio Pavesi ti mostra su Outpump un po' di scatti clamorosi di Michael Jordan firmati Walter Iooss Jr.
Il 7 marzo c'è l'All-Star Game NBA 2021 ad Atlanta. Ma era necessario? Ognuno la pensi come vuole, ma di certo loghi come questi non se ne sono più visti.
Prima ho accennato qualcosa sui Fab Five di Michigan. Se vuoi conoscere tutta la storia, c'è il recente pezzo di Luca Mich su La Giornata Tipo (che puoi ascoltare anche in podcast). Ma non dimenticare quello storico di Lorenzo Bottini su l'Ultimo Uomo.
Se invece vuoi farti una cultura di basket femminile internazionale, ti consiglio su l’Ultimo Uomo il reportage di Michele Pelacci, che ha seguito di persona la “bolla” di Euroleague a Schio.
Il 7 febbraio Sky Sport ha celebrato la prima partita NBA trasmessa in Italia: Celtics-Lakers del 1981. Dan Woike del Los Angeles Times ha raccontato la storia degli italiani che resero possibile una cosa del genere.
Overtime – Storie a spicchi sta per varare il restyling del sito, dove ci sarà anche uno spazio riservato ai migliori post provenienti dal gruppo Facebook della community.
Infine, ricordati sempre che Teodosic ha fatto questa roba qua.
Conclusioni
Sei arrivato così alla fine di questo secondo numero di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che manterrai la tua iscrizione alla newsletter.
Ti chiedo una piccola accortezza. Quando riceverai questa mail, potrebbe finire nella tua cartella spam. In tal caso, devi fare due cose: contrassegnare il messaggio come “non spam” e salvare il mittente nella tua rubrica. Così facendo, dovresti riceverla regolarmente. Se non fosse neppure nella cartella spam, controlla nella tab Promozioni (se usi Gmail sai di cosa parlo).
Al di fuori di Galis, mi trovi su www.neverendingseason.com, di cui ti invito a seguire anche la pagina Facebook e il profilo Instagram. Puoi scrivermi quando vuoi dal modulo Contatti che trovi sul blog oppure attraverso i miei profili personali Facebook, Instagram, Twitter e LinkedIn.
Prima di salutarti, ti ricordo il mio libro Il parquet lucido. Storie di basket. È uscito alcuni mesi fa, a livello nazionale, per Ultra Edizioni. Una galleria di personaggi, squadre e vicende che hanno lasciato un segno indelebile sul gioco. Con due particolari appendici, di cui non ti anticipo nulla.
Puoi acquistarlo in libreria in tutta Italia, e se non lo trovi puoi ordinarlo sempre in libreria: aiutiamo questi posti, perché le librerie sono importanti. Altrimenti, se hai difficoltà a spostarti, è disponibile sui principali store online – qui su Amazon – e arriverà direttamente a casa tua in pochi giorni.
Ci vediamo il 31 marzo. Ciao!