Follie di marzo
#15 - Basket, cultura, lifestyle: qui trovi NCAA a ruota libera, una cosa sui libri di pallacanestro e lo Shootaround
Ciao, se sei arrivato fin qui, vuol dire che hai superato indenne tutte le fasi della March Madness.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il quindicesimo numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
Nella scorsa uscita (se ti è sfuggita, recuperala qui) ho scritto del Celebrity Game e di quanto si è divertito Gianmarco Tamberi, della nuova serie tv sui Lakers e del progetto FIBA Basketball For Good.
Oggi invece voglio raccontarti un po' di cose a ruota libera sul magico mondo del college basketball. Sei pronto per la Final Four NCAA? Andiamo!
Storie di tv e di pirati
Hai notato che da qualche anno nessun canale tv acquisisce i diritti per trasmettere in Italia il basket NCAA? Se vuoi vederlo, infatti, devi attivare un abbonamento all'ennesima piattaforma streaming. Con una piccola novità, però.
Intanto, se ti accontenti delle telecronache in inglese, c'è sempre ESPN Player, che è una buona soluzione. Per i veri appassionati di sport americani, non è neanche un gran sacrificio: 12 euro al mese, 80 all'anno, ti danno pure la settimana di prova gratis. E c'è un bel palinsesto di documentari prodotti dal network sportivo top degli Stati Uniti.
La novità riguarda invece il ritorno della NCAA con commento in italiano: Helbiz Live, la piattaforma streaming dell’azienda di micromobilità Helbiz (gestisce il business di monopattini, biciclette e scooter elettrici in diverse città del mondo), sta trasmettendo 20 partite della March Madness, inclusa la Final Four di New Orleans dal 2 al 4 aprile.
L'acquisto dei diritti italiani, in co-esclusiva con ESPN Player, era stato annunciato lo scorso novembre con uno scarno comunicato, ma poi non se ne era saputo più nulla. Sul sito non è comparso niente fino all’ultimo momento. Una volta accertatomi che le gare venissero trasmesse, ho acquistato un mese di abbonamento, che costa solo 6 euro.
Ed ecco così un po' di March Madness in italiano. Telecronaca con voce singola da studio, interviste dei reporter americani “mute”, intervalli vuoti con spot di Helbiz in loop: insomma, niente di eclatante, ma almeno quest'anno il clou del torneo NCAA è stato raccontato nella nostra lingua da bravi cronisti come Michele Pedrotti e Matteo Gandini.
Per completezza, ti informo che Helbiz Live ha anche i diritti della Serie B di calcio, che occupa la quasi totalità del palinsesto, insieme alla NCAA e a... Miss Italia!
In fin dei conti, con il moltiplicarsi delle piattaforme streaming, mi sembrava abbastanza strano, se non assurdo, che in Italia si fosse perso totalmente l'interesse per la pallacanestro universitaria USA. Da noi, infatti, c'è una bella nicchia di appassionati.
Penso al portale Basketballncaa.com, molto visitato, che sforna tanti contenuti in italiano, comprese utili guide per orientarsi in una realtà non semplice da seguire per chi non vive in America.
Penso all'aumento di giocatori italiani nelle università d'oltreoceano e alle recenti esperienze di Federico Mussini, Davide Moretti, Tomas Woldetensae, Francesco Badocchi, Gianmarco Arletti, Gabriele Stefanini, coach Riccardo Fois e altri, ma anche il solo nome di Paolo Banchero è più che sufficiente, no?
Penso al College Basketball Tour, interessantissimo evento estivo che fino al 2019, prima che la pandemia lo bloccasse, ha portato in Italia numerose squadre NCAA di alto livello, ricche di atleti che poi sarebbero sbarcati nel professionismo. Auguro allo staff di riuscire a organizzarlo di nuovo il prima possibile.
In definitiva, la NCAA, se ben raccontata, è in grado di attirare seguaci e addetti ai lavori non solo NBA (in ottica Draft) ma anche FIBA, perché molti ragazzi in uscita dai college vengono a giocare in Europa e perché in generale, per chi ritiene che in NBA si pensi solo allo spettacolo, qui si gioca un basket più “di squadra”.
Spero perciò che l'esperienza di Helbiz Live sia solo un preludio al ritorno del college basketball in italiano su un grande network. Del resto, come non ricordare le mitiche telecronache di Tele+ con gli straordinari Paola Ellisse e Federico Buffa?
Problemi di streaming o di diritti televisivi non ce n’erano sicuramente ai tempi in cui Nikos Galis, la leggenda del basket di cui questa newsletter porta il nome, giocava in NCAA. Sto parlando degli anni che vanno dal 1975 al 1979, quando in Italia non era arrivata neppure la NBA – la prima partita fu trasmessa nel 1981: se hai modo, vai a riguardarti lo splendido speciale di Sky Sport con i pionieri artefici di quella profetica importazione – figuriamoci il basket delle università.
Galis, dicevo. Se mi segui fin dall'inizio, nel primo numero ti rivelavo i motivi per cui ho chiamato così il prodotto che stai leggendo. Puoi ritrovarli a questo link, in ogni caso uno di essi è che Nikos, con la sua storia personale, rappresenta una sorta di ponte ideale tra Europa e America: figlio di emigranti ellenici nato e cresciuto negli Stati Uniti e poi diventato un eroe al di qua dell'Atlantico, nella sua Grecia, che ha condotto all'epico successo europeo del 1987 (lo racconto qui).
Galis, anche per me, è circondato da un'aura mitologica. Nei suoi anni migliori ero ancora piccolo e non seguivo bene il basket come avrei fatto più tardi, così mi giungeva solo qualche flebile eco delle sue imprese, delle sue siderali parabole di tiro con cui eludeva le lunghe braccia protese di avversari la quasi totalità delle volte più alti e grossi di lui. Non è della sua carriera che voglio parlare ora, però visto che siamo in tema NCAA mi soffermo sulla sua alma mater, Seton Hall, di cui ci sono un po' di cose da dire.
Seton Hall, home of the Pirates, è un'università cattolica del New Jersey, con sede nella cittadina di South Orange, a breve distanza dal grande aeroporto di Newark. Siamo quindi nell'area metropolitana di New York, la quale sconfina nel New Jersey al di là del fiume Hudson. Lo stesso Galis è di Union City, che sta praticamente di fronte a Manhattan all'altezza di Hell's Kitchen.
I Pirates, negli ultimi tempi, sono stati una presenza piuttosto frequente alla March Madness, ma negli anni '70 non erano granché. Diventeranno competitivi, assecondando così la grande passione per il basket che anima questo ateneo di medie dimensioni, dal decennio successivo con coach P.J. Carlesimo (sì, quello a cui Latrell Sprewell mise le mani al collo...). Erano in grado di riempire la Meadowlands Arena, condivisa con gli allora New Jersey Nets della NBA.
Seton Hall sfiorò addirittura il titolo nel 1989, alla Final Four di Seattle: dopo aver eliminato in semifinale Duke, già allora allenata da Mike Krzyzewski, perse di un solo punto all'overtime la finalissima contro Michigan di Glen Rice e Rumeal Robinson. In quella partita, ai Pirates non bastarono i 35 punti di tale John Morton, guardia del Bronx che in carriera annovera 11 presenze in Italia a Ragusa. Nel quintetto c'era un altro giocatore di culto, l'australiano Andrew Gaze, che con l'elettrizzante guardia tiratrice Shane Heal era il simbolo della nazionale dei canguri di quel periodo.
Seton Hall mancò l'accesso al Torneo NCAA 1990, ma poi si sarebbe fatta onore con altre quattro apparizioni consecutive. E in quello che è stato il miglior periodo della storia dei Pirates, fece parlare di sé anche un italiano: Marco Lokar, di Trieste.
Non so se tu ti sia mai trovato a seguire la nostra serie B d'Eccellenza, detta anche B1, negli anni '90. Era un campionato di livello molto più alto rispetto alla B attuale, e probabilmente neanche l'odierna A2 reggerebbe il confronto. Ci militavano nobili decadute che presto avrebbero riassaporato i massimi palcoscenici della pallacanestro italiana, come la Don Bosco Livorno, erede di quella Libertas che mancò di un soffio e tra le polemiche lo scudetto nel 1989, e la Partenope Napoli. Ma anche tanti club emergenti, espressione di piazze calorose, in procinto di raggiungere i vertici nazionali o comunque di dire la loro a livello di A e A2: su tutte Avellino, con il mitico tiratore Pippo Frascolla, e poi Roseto, Jesi, Biella, Teramo, Barcellona Pozzo di Gotto, Ferrara, Treviglio, Scafati, Trapani. Tra le squadre che cercavano di riconquistare gli antichi fasti spiccava anche Rieti.
Nella città laziale, dal 1995 al 1997 trascorse due ottime stagioni proprio Marco Lokar, nel corso di una carriera girovaga in cui ha indossato anche le divise di altre compagini tra quelle sopra citate. Era un play dotato di un gran tiro da tre: ricordo di aver visto con i miei occhi un suo clamoroso 7/7 dall'arco nel solo primo tempo – c'erano ancora i due tempi da 20 minuti, proprio come in NCAA – con cui massacrò in trasferta, in un derby al calor bianco, la pur forte Viterbo, che pochi mesi dopo sarebbe arrivata alla finale promozione persa contro Livorno.
Lokar era uno dei miei giocatori preferiti di quegli anni e conservo ancora una lunga intervista rilasciata nel 2000 a Marco Valenza sulla storica rivista Giganti del Basket, in cui raccontava l' esperienza a Seton Hall. Era un giocatore la cui intelligenza gli ha reso possibile non limitare la sua vita alla pallacanestro e non vivere di ricordi: infatti oggi è un plurilaureato e affermato manager d'azienda (per curiosità, lo trovi su LinkedIn).
Dopo aver saggiato la realtà americana in un liceo di Philadelphia, Lokar ottenne una borsa di studio a Seton Hall, dove arrivò a vent'anni, nel 1989, quando gli italiani che giocavano in NCAA erano mosche bianche. Marco, brillante studente di economia e marketing, non era uno degli elementi di punta della squadra, né forse sarebbe mai stato considerato dalla NBA, ma divenne famoso per due episodi.
Il primo è di natura cestistica, un momento di gloria vissuto durante la stagione da freshman: i 41 punti messi a segno contro Pittsburgh con cui strabiliò gli undicimila spettatori della Meadowlands Arena. Era successo che il play titolare, Oliver Taylor, venne messo in punizione da coach Carlesimo per aver fatto ritardo a un allenamento. Così Lokar, che di solito giocava poco, sfruttò la sua grande occasione come meglio non avrebbe potuto, trascinando i Pirates alla vittoria per 86-81. Una di quelle serate in cui nel canestro entra tutto, e non gli capitò più niente di simile in maglia Seton Hall.
L'altro episodio c’entra meno con il parquet. Nella stagione successiva, Lokar rifiutò la bandierina a stelle e strisce che tutte le squadre portavano cucita sulla divisa, a sostegno dei militari americani impegnati nella Guerra del Golfo. La sua presa di posizione, mossa da una genuina volontà di non scendere a compromessi con i propri ideali e principi etici, scatenò contro di lui le antipatie di una buona parte dell'opinione pubblica, che in quel momento era infervorata da un certo nazionalismo e approvava l'intervento militare. Risultato: per Lokar rimanere negli USA divenne impossibile. Minacce di morte a lui e alla famiglia, appostamenti, contestazioni. Era diventato un personaggio pubblico, ricevette anche sostegno da parte di chi la pensava come lui, ma non servì.
La goccia che fece traboccare il vaso fu una partita nel febbraio 1991 al Madison Square Garden di New York, campo di St. John's, dove fu subissato di fischi e buu a ogni tocco di palla. Per quanto Carlesimo non lo avesse ostacolato nella sua scelta, si decise che la cosa migliore fosse sospenderlo dalla squadra. Nei mesi successivi si laureò e tornò in Italia. Il suo gesto, in realtà presto dimenticato da molti una volta sgonfiatasi la notizia, rimase una nota a margine negli annali.
In seguito, in varie interviste, Lokar spiegò di non aver rifiutato la bandiera americana in sé. Semmai, secondo la sua opinione di ventenne idealista, era più opportuno mostrare la bandiera delle Nazioni Unite, o qualcosa che rappresentasse non solo gli USA ma anche i loro alleati e, perché no, gli iracheni, visto che siamo tutti esseri umani e che – parole sante, vista l’attualità – la guerra è sempre una sconfitta.
Così ti ho raccontato di Galis e Lokar, entrambi alumni di Seton Hall, che per la cronaca quest'anno è uscita al primo turno del Torneo NCAA. Mi chiederai cosa c'entrano con la March Madness e io ti rispondo: niente, dal momento che nessuno dei due l'ha mai giocata.
Il primo perché la squadra non era abbastanza forte, il secondo perché prima beccò l'unico di quegli anni (1990) in cui i Pirates non ottennero l'accesso e poi (1991) per il fatto che ti ho appena raccontato. Un po' meglio andarono le cose al lituano Arturas Karnisovas, ex Fortitudo Bologna, che disputò quattro tornei consecutivi con Seton Hall. Oggi è il vice presidente esecutivo dei Chicago Bulls. Negli anni di Lokar e Karnisovas c'era anche un altro studente italiano a Seton Hall, ma giocava a calcio: Simone Sandri, giornalista de La Gazzetta dello Sport.
Hai fatto caso, solo parlando di due giocatori non tra i più famosi in ambito NCAA e di un college sì importante ma non tra quelli di maggior tradizione, a quanti intrecci di vite e carriere sono saltati fuori? Questa infatti è una delle magie del college basketball, ma non è certo l'unica, anzi.
Quella universitaria è una pallacanestro giocata da ragazzi la cui età va dai diciotto ai ventidue anni, massimo ventitré-ventiquattro, di cui solo una piccola parte andrà in NBA. Altri troveranno squadra in Europa o nel resto del mondo, mentre una consistente fetta smetterà semplicemente di giocare e avrà quella che si definisce una vita normale, lontana dai riflettori.
In tal modo, il basket dei college contiene in sé sia la spensieratezza della gioventù sia la malinconia, il giorno in cui tutto sarà finito, del ricordare i proverbiali good old days. E forse risiede proprio qui il motivo per cui negli States il legame sportivo più forte non è con le squadre professionistiche ma è quello con la propria università, grazie all'esperienza di vita che tale realtà è in grado di assicurare a chi la vive pienamente.
È senza dubbio un mondo particolare e affascinante, che nonostante non l'abbia mai vissuto di persona – mi fa molto piacere invece che ci siano oggi sempre più italiani a frequentare l’università oltreoceano – mi ha sempre attratto, tanto da dedicargli la tesi del mio master in giornalismo, incentrata sulla Dinastia di UCLA del leggendario coach John Wooden, cioè l'irripetibile striscia di titoli nazionali vinti dall'ateneo di Los Angeles tra il 1964 e il 1975. Puoi scaricarla da questo link: consideralo un mio lavoro ancora acerbo, ma che serviva allo scopo ed è valso un bel 110 alla LUISS di Roma.
La NCAA rimane un campionato non semplice da seguire e raccontare, e non solo per questioni di copertura mediatica. La Division I annovera circa 350 squadre, ripartite in 32 conference, e in meno di cinque mesi si giocano migliaia di partite, il che rende impossibile seguirla come siamo abituati a fare con qualsiasi altro campionato. E inoltre ci sono vari meccanismi “strani”, come ad esempio il fatto che ogni team può costruirsi su misura una parte del calendario. Dal punto di vista giornalistico, sono infatti le storie, gli aneddoti e le curiosità a catalizzare le attenzioni, non tanto risultati e statistiche, così come più che le classifiche contano i ranking nazionali, numerosi e non sempre concordi, ma essenziali per avere un quadro delle formazioni migliori.
Se sei interessato ad approfondire il discorso, qui trovi una semplice guida, sempre a cura di BasketballNcaa.com, che ormai ti sarà utile il prossimo autunno. Inoltre ti suggerisco anche due pezzi di Michele Pettene su L'Ultimo Uomo (prima questo e poi questo) su una delle questioni fondamentali dello sport collegiale.
Se stare dietro a una stagione NCAA è difficile, la March Madness, suo culmine, è l’esatto contrario: tabellone tennistico a eliminazione diretta in gara secca, dentro o fuori. Uno schema di competizione che riporta agli albori dello sport moderno, senza round robin, andate e ritorni, classifiche avulse e quant'altro. Che vince avanza, chi perde è eliminato. Una tradizione che dura dal 1939. In fondo, non è proprio il college basketball quello che ha ancora i due tempi da 20 minuti e lo shot clock a 30 secondi, i quali fino a non molto tempo fa erano addirittura 35? Buona Final Four a te e a tutti!
Editing, please
Alcuni anni fa, nel 2016, mi sono trovato a leggere un libro di basket un po' di nicchia, ma molto interessante: A canestro di Idan Ravin (titolo originale The Hoops Whisperer), edito in Italia da Baldini & Castoldi, casa che oggi – non mi chiedere perché! – si chiama Baldini+Castoldi. Il volume è l'autobiografia di un noto personal trainer che, partendo dal nulla, è riuscito a ritagliarsi un posto nel gotha del basket lavorando con alcuni tra i più forti giocatori NBA, da LeBron James a Stephen Curry, da Kevin Durant a Chris Paul e molti altri.
La storia di Ravin la trovo bellissima, ricca di spunti motivazionali, sinceramente attraente per il percorso di un totale outsider che, seguendo la propria passione, è arrivato a guardare le star negli occhi. Sai che una volta l’ho intervistato per il mio blog? Puoi leggere l’articolo qui.
Ciò che voglio evidenziare, però, non riguarda il personaggio, ma chi ha pubblicato il suo testo in italiano: in questo libro, infatti, ho trovato una quantità industriale di refusi ed errori di traduzione, o persino di concetto, praticamente uno o più di uno per ogni pagina. Credo sia inammissibile, non trovi?
Devi sapere che ho una predisposizione naturale alla correzione dei testi, dal momento che mi salta agli occhi con estrema facilità ogni possibile imprecisione, incluse robe come i “famigerati” doppi spazi, e per questo tante volte mi sono state affidate revisioni di articoli, testi di ogni genere o anche interi libri, seppure io di professione non abbia mai fatto l’editor o il correttore di bozze. Così, mentre leggevo A canestro di Idan Ravin, esterrefatto dalle continue e irritanti inesattezze, mi sono preso la briga di annotarmi tutti gli errori e inviarli all'ufficio stampa, in modo che potessero migliorare il prodotto in vista di ristampe successive. E mi hanno subito ringraziato per questo servizio non richiesto. E gratuito, aggiungerei.
Quello che mai mi sarei aspettato, invece, è trovare un sacco di refusi, errori di traduzione ed errori concettuali anche in altri libri di basket! Così ho fatto la stessa cosa, ricevendo ringraziamenti e apprezzamenti, per titoli quali Il sesto uomo di Andre Iguodala (Add editore), I Golden State Warriors di Ethan S. Strauss (66th&2nd), King. La biografia di LeBron James di Davide Chinellato (Libreria Pienogiorno), Uomo a tutto campo di Sergio Scariolo (Baldini+Castoldi). Tutte case editrici, lo metto bene in chiaro, di cui ho grande stima.
La conclusione che ne ho tratto è questa: comprendo che non sia facile gestire la frenesia dei processi produttivi e la ristrettezza dei tempi in un mondo, anche quello editoriale, che va sempre più di corsa. Ma mi auguro che nelle future uscite si faccia più attenzione, anche perché gli appassionati di basket, come me e sicuramente te, sono lettori di buon livello culturale e soprattutto “puristi” che per lo sport che amano esigono un trattamento con i guanti bianchi.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Ripartiamo dal basket NCAA con un po' di link dal mio blog e non solo.
Qui ho selezionato 15 frasi significative di Coach K, che finirà la carriera con la sua tredicesima Final Four, record assoluto.
Qui, invece, racconto l'origine di One Shining Moment, la canzone che risuona nell'aria al termine della finalissima.
E qui descrivo The Palestra a Philadelphia, la Cattedrale del Basket.
Alla March Madness 2022 c'era anche Yale, un college di Ivy League, una conference molto particolare di cui ti spiego qualcosa qui.
Ti sei mai chiesto il significato di alcuni strani nickname delle squadre di college? Qui ho selezionato i dieci più singolari.
Alessandro Cozzi e Francesco Semprucci di True Shooting hanno intervistato Gabriele Stefanini di San Francisco, ex Columbia, su come è la vita in NCAA e negli Stati Uniti: ascolta il podcast.
Quindi Amedeo Della Valle, oggi a Brescia e con un passato a Ohio State, racconta tutto su The Owl Post.
Mentre Simone Sandri, quello di Seton Hall, per La Gazzetta dello Sport ha parlato del percorso di Gianmarco Arletti a Delaware.
E infine non è che ci siano tanti film di basket sul mondo NCAA: i due essenziali sono Glory Road (storia vera) e Basta vincere - Blue Chips (storia di fantasia).
Con il college è tutto, però restiamo un attimo in tema di entertainment.
Si dice che Winning Time, la serie tv sui Lakers dello Showtime di cui ti ho parlato nello scorso numero, andrà in onda su Sky, ma non è ancora ufficiale. Intanto Davide Chinellato de La Gazzetta dello Sport ha intervistato Quincy Isaiah, l’attore che interpreta Magic.
Alan Siegel di The Ringer ti porta dietro le quinte della serie, in questo pezzo (in inglese).
E dalle parti del Forum di Inglewood hanno realizzato un bel playground.
Ma vogliamo parlare del favoloso long-form di Ryan Jones per SLAM sulla cultura di basket a Los Angeles negli anni '80? Titolo: City of Dreams (in inglese).
Di nuovo su La Gazzetta dello Sport, un ottimo ritratto del neo-cinquantenne Shaquille O'Neal firmato da Davide Piasentini.
A una partita di Golden State è apparso Will Ferrell vestito da Jackie Moon, il personaggio del film di basket Semi-Pro, per motivare Klay Thompson: guarda il video di Sky Sport.
Grant Williams dei Boston Celtics si è divertito ad associare un supereroe a ciascuno dei suoi compagni. Lui è Batman, perché una sera ha difeso forte su Joker (Nikola Jokic). Gli altri eccoli, sempre su Sky Sport.
E tanto per non prendersi troppo sul serio, Jacopo Cirillo su L'Ultimo Uomo ci guida in un viaggio su Twitter attraverso lo humor sulla NBA.
Ti ricordi Jimmer Fredette, vero? Alberto Pucci di Around The Game racconta la sua storia attraverso le parole di un noto brano di John Lennon.
Il rapporto tra Nike e la famiglia di Kobe Bryant continuerà. Ecco come (in inglese).
Un’analisi sui podcast di giocatori NBA e altri sportivi e sul modo in cui hanno cambiato la relazione tra atleti e pubblico: leggi l’articolo di Alessandro Cappelli su Rivista Undici.
Passiamo in Italia. Se vuoi acquistare gli NFT della LBA, li trovi qui.
The Basketball League Report è lo studio che IQUII Sport effettua su presenza social e fan base dei club italiani ed europei: scarica qui il numero di marzo.
C’è vita a Roma? Alessandra Fanella di Basket Universo ha intervistato Alessandro Tonolli sul progetto Virtus Roma 1960.
Un paio di libri. Il 24 marzo è uscito Il favoloso Doctor J di Michele Martino: tutta la storia di Julius Erving nella nuova perla di 66th&2nd (acquistalo qui).
Poi ecco C'era una volta la pallacanestro... e non solo di Giorgio Gandolfi, giornalista, scrittore, manager, ambasciatore del basket, come lo ha definito il suo amico… Doctor J, autore della prefazione (acquistalo qui).
Per finire, ti lascio il video di The Queen of Basketball, premio Oscar come miglior corto documentario. Narra della grande Lusia Harris, recentemente scomparsa. Tra i produttori esecutivi Steph Curry e Shaquille O’Neal.
Conclusioni
E così siamo giunti alla fine di questo numero 15 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter!
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Noi ci vediamo il 30 aprile. Ciao!