Più di uno scuolabus
#10 - Basket, cultura, lifestyle: qui trovi uno scuolabus americano, il nuovo Rucker Park e un tatuaggio
Ciao, oggi è il 31 ottobre e non aspettavo altro per dirti che la zucca di Halloween e il pallone da basket hanno lo stesso colore.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il decimo numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season. Qui ti parlo di basket, cultura e lifestyle.
Nell'ultima uscita (se te la sei persa, recuperala qui) è stato protagonista il cinema, con una selezione di film a tema cestistico e un giudizio a caldo su Space Jam. New Legends.
Ora, invece, per introdurti il primo tema di Galis #10 ti metto qui il video realizzato dalla NBA per celebrare i suoi 75 anni. Guardalo tutto con attenzione, anche più di una volta, perché i particolari da notare sono un'infinità. E poi perché merita. A tra poco.
More than a school bus
Emozionante, vero?
Sugli innumerevoli riferimenti non casuali a cose, fatti, personaggi in NBA Lane – il titolo dello spot, diretto da Rick Famuyiwa – non sto a dilungarmi. Anzi, preferisco rimandarti a questo pezzo di Cesare Russo su True Shooting, che li analizza in profondità.
Voglio invece soffermarmi sul “protagonista” del video. Che non è tanto Michael B. Jordan – a proposito, se hai visto Space Jam. New Legends avrai apprezzato il suo cameo – quanto il particolare scuolabus di cui è il conducente. Perché non si tratta di uno scuolabus qualsiasi, né di un mezzo allestito per l'occasione, ma di qualcosa che esiste anche nella realtà e che si chiama Hoopbus.
Quella dello scuolabus è una figura ricorrente nell'immaginario quotidiano americano, e non solo. Svariati film ci hanno reso familiare il classico pullman giallo che, per inciso, rappresenta un servizio estremamente fondamentale, considerate anche le distanze negli Stati Uniti, in città grandi e piccole, e mettiamoci pure i pericoli insiti nella loro società. Tra i film dove lo scuolabus è ben presente, mi viene in mente Forrest Gump, per esempio. O anche Independence Day – Rigenerazione, in cui un vecchio scuolabus non solo si è mantenuto tale anche nel futuro, ma resiste a qualsiasi stravolgimento del mondo.
Quindi, come tanti altri aspetti dello stile di vita americano, anche lo scuolabus è considerato una sorta di icona. Non è raro, nei negozi di souvenir, trovarne in vendita i modellini. E più volte, durante i miei due viaggi che ho fatto finora oltreoceano, mi è capitato di passare vicino a sconfinati depositi di scuolabus tutti uguali.
C'è stata persino una vicenda piuttosto controversa che ha interessato uno scuolabus carico di 26 bambini, nel 1976: il rapimento di Chowchilla, in California, per fortuna senza tragiche conseguenze, di cui puoi leggere un interessante long-form sul magazine Vox (qui, in inglese), che ho trovato tra i suggerimenti di Digital Journalism, una newsletter molto carina prodotta da Francesco Oggiano (se vuoi iscriverti, puoi farlo qui).
Tornando allo Hoopbus, il mezzo utilizzato è un Blue Bird All American di tipo D, vale a dire il modello più lungo e conosciuto della Blue Bird Corporation. «Ma come? – potresti chiederti – Lo scuolabus americano, quello dei film, non aveva il muso a punta?» Certo, ma quello è lo scuolabus di tipo C, leggermente più corto (ovviamente ho perso del prezioso tempo a documentarmi su Wikipedia e altri siti!). Detto questo, penso sia opportuno raccontarti ora qualcosa sullo Hoopbus, questo scuolabus riadattato con due canestri, uno anteriore e uno posteriore, che gira gli USA portando la gioia del basket dove c'è bisogno.
Hoopbus è una non profit fondata a Los Angeles da quelli di Veniceball, ovvero la Venice Basketball League. Hai presente i playground tra le palme a due passi dalla spiaggia dove, facendo ancora un richiamo cinematografico, è stato girato Chi non salta bianco è? Oppure, scegliendo un film un po' più duro, dove va in scena la sfida a basket tra neo-nazisti e neri in American History X? Ecco, quelli sono i campetti di Venice Beach, forse secondi per fama solo al Rucker Park di New York. Qui nel 2006 è nato un torneo diventato un punto di riferimento dello streetball californiano, per alcuni anni immortalato dagli scatti del bravissimo fotografo francese, oggi in Giappone, Jeremy Renault, che tempo addietro ho avuto il piacere di intervistare per il mio blog (qui l’articolo). Nick Ansom è il fondatore del torneo e, insieme a Eliot Robinson, di Hoopbus.
Lo scopo è presto detto: ispirare, ampliare, emancipare, connettere comunità attraverso il basket, grazie alla sua indiscutibile potenza nell'abbattere barriere sociali e nel promuovere una vera uguaglianza. E quindi combattere il razzismo sistemico e le disparità che tuttora negli Stati Uniti penalizzano afroamericani e altre minoranze etniche.
Così Anson, Robinson e la crew di Veniceball – forse ricordi che c'è anche la mano di Nick dietro la realizzazione del Kobe Park, il playground di Napoli dedicato a Bryant – hanno acquistato un vecchio Blue Bird, lo hanno customizzato (scusami il termine orrendo) con i canestri e con frasi ispiratrici (per citarne alcune, Rims of the world unified, Build courts not walls, I can't breathe, Power 2 the people) e hanno iniziato a percorrere gli States in lungo e in largo, portando la pallacanestro e il suo carico di amicizia, allegria e consapevolezza sociale nei luoghi in cui ce n'è necessità, come le comunità meno fortunate e i quartieri disagiati, che spesso sono quelli abitati principalmente dalle minoranze.
La presenza dello Hoopbus crea in tal modo, attraverso il basket, un territorio neutrale e libero dove razzismi, disuguaglianze, barriere, pregiudizi e negatività varie non sono ammessi. E grazie all'attivazione di partnership con le realtà locali destinate a durare, una volta ripartito lo Hoopbus lascia ogni posto migliore di come lo aveva trovato.
Stando ai dati riportati sul sito ufficiale, finora lo scuolabus ha toccato 31 stati, promosso la riqualificazione di 7 playground (tra cui quello in memoria di Nipsey Hussle a L.A., che avevo descritto qui, ma anche in città come Boston, Dallas, Washington) e donato migliaia tra palloni, scarpe, canestri e materiale sportivo, laddove i suddetti problemi sociali condizionano in maniera significativa l'accesso allo sport, e per esteso alla vita pubblica, delle minoranze. E ancor più, al loro interno, delle donne.
Soprattutto durante la campagna per le elezioni presidenziali 2020 concluse con la vittoria di Joe Biden su Donald Trump, Hoopbus ha sostenuto il movimento Black Lives Matter e ha ricevuto un elogio pubblico da Michelle Obama. Ed è quindi diventato un mezzo con cui veicolare sia la passione per il basket che l'impegno civile. La NBA, sempre in prima linea sul tema dei diritti civili, delle libertà e dell'inclusività, seppur la sua natura di business la ponga talvolta di fronte a situazioni molto spinose come la diatriba Daryl Morey-Cina e la questione Kyrie Irving-vaccini, ha voluto riconoscere l'importanza dello scuolabus dei canestri mettendolo al centro di uno dei suoi migliori video celebrativi mai realizzati.
Nuova vita per Rucker Park
Ho visitato Rucker Park a New York nel 2017. Non è stato difficile arrivarci. Da Columbus Circle, cioè dall'angolo sud-ovest di Central Park, prendi una delle linee arancioni della Subway in direzione Bronx, cioè nord, e dopo una decina di fermate ti ritrovi a North Harlem, alle famose coordinate 155th Street & 8th Avenue. Esci dalla stazione, attraversi il Frederick Douglass Boulevard (il nome che la 8th prende in quel tratto), varchi una recinzione metallica e... eccoti dentro il playground più famoso del mondo, la mecca dello streetball.
Quando ci sono stato io, feci caso a due ragazze con una t-shirt con scritto sopra qualcosa contro la violenza da armi da fuoco e inoltre mi colpì il fatto che ci fosse una sorta di security, interamente afroamericana, a controllare che i ragazzi giocassero indisturbati, tanto che uno di loro mi chiese, in maniera cordiale, chi diavolo fossi e cosa ci facessi lì. Insomma, tanto per ricordarti che sei pur sempre in America, a New York, e che quello un tempo non era un quartiere esattamente raccomandabile.
North Harlem è quasi il Bronx, che se sali sul viadotto della W 155th Street lo vedi in lontananza, oltre l'Harlem River. Bronx che anch'esso non è più quello di una volta, ma il nome fa comunque effetto. Tuttavia già ciò che circonda il Rucker sembra molto periferia. Penso infatti che a rendere il Greg Marius Court il posto che è – allora, per essere pignoli, Holcombe Rucker Park è il nome del giardino all'interno del quale si trovano più strutture tra cui il campetto, da qualche anno intitolato a Greg Marius, scomparso nel 2017, colui che negli anni '80 fece rinascere il famoso torneo – dicevo che a creare il fascino di questo luogo non sia soltanto la sua enorme tradizione, ma senza dubbio gioca un ruolo importante l'atmosfera.
Infatti dietro uno dei canestri, quello ovest, si innalza maestosa e scenografica una delle Polo Grounds Towers. Cioè il complesso di quattro palazzoni, che contengono oltre 1600 appartamenti popolari, ultimati nel 1968, che sorge al di là della strada, sul terreno dove fino a quattro anni prima esisteva il Polo Grounds, storico stadio di baseball dei New York Giants, che qui hanno vinto ben cinque World Series, prima che si trasferissero a San Francisco al termine della stagione 1957. Esattamente in contemporanea con i grandi rivali (e lo sono ancora oggi) dei Brooklyn Dodgers, diventati Los Angeles Dodgers, mentre la Grande Mela vedeva l'ascesa definitiva degli Yankees, dominatori degli anni ‘60 e la nascita dei “miei” Mets – sì, sono tifoso dei Mets, non ricordo se te l'avevo già detto! – che tra l'altro disputarono le prime due stagioni proprio al Polo Grounds. Avevo accennato alla storia dei Dodgers e al perché questo nome richiama quella di Brooklyn nel numero 3 di Galis quando parlavo di gentrificazione (se ti fa piacere rileggerlo, eccolo).
Chiusa parentesi baseball, torniamo al Rucker Park. Alzando gli occhi per contemplare questo piccolo grattacielo – “solo” 30 piani – dalla funzione abitativa, puoi facilmente immaginare che in certe sere d'agosto, all'epoca in cui anche gente come Julius Erving si presentava a giocare al torneo del Rucker, le finestre che danno sul campo fossero tutte aperte e illuminate, con gli inquilini affacciati a godersi le gesta di giocatori fenomenali che venivano qui a misurarsi con le leggende dei playground. La gente non solo affollava le tribunette e i bordi del campo, ma era abbarbicata ovunque, sulle recinzioni, sugli alberi, persino sui tetti degli edifici vicini. Se vuoi conoscere approfonditamente la storia, ti ricordo che c'è sempre – e lo cito anche stavolta, perché merita di brutto – il libro Gli dei dell'asfalto di Vincent M. Mallozzi, del 2003, recentemente uscito nella versione italiana, da me recensita qui.
Allora, quattro anni fa, al Rucker Park, ho avuto tempo di trattenermi là giusto una ventina di minuti. Giornata calda di fine luglio, solo un po' di ragazzi che tiravano. È stata proprio l'atmosfera urbana a meravigliarmi, perché in effetti il rettangolo di gioco non è più come i playground “duri e puri” di una volta, ma è moderno, fondo colorato di giallo e azzurro, vari banner pubblicitari, segnapunti elettronico e canestri attuali con tabelloni in plexiglas e rimbalzo ovattato, ben diversi e meno fascinosi rispetto a quelli metallici che molti altri basketball courts di New York ancora ostentano orgogliosi. Ma ovviamente tutta la storia di Harlem supplisce a ogni addolcimento apportato dai nostri tempi. Quel giorno era estate piena, quindi forse mi sono perso un po' la bellezza d’inizio autunno, quando la città esplode in una serie di meravigliosi colori. E forse non a caso l’opera di riqualificazione di Rucker Park è stata ultimata proprio in tempo per godersi il famoso autunno newyorchese, che anche qui fa da cornice al basket.
Anche a sottolineare lo spirito di rinascita, dopo che la pandemia aveva fermato lo streetball, il Greg Marius Court è stato interamente rimesso a nuovo, grazie a un’iniziativa nata dalla partnership tra la NBPA, l'associazione giocatori NBA oggi presieduta da CJ McCollum e guidata dalla carismatica direttrice esecutiva Michele Roberts, e NYC Parks, cioè il dipartimento cittadino del verde pubblico. Ecco, se sei stato a New York hai probabilmente notato che ogni giardino o parco mostra all'ingresso un cartello scuro con il logo di una foglia d'acero: quello è NYC Parks e la naturale predisposizione al marketing, al design e all'auto-promozione della città ha reso anche il verde municipale un brand riconoscibile.
Ultimamente il Rucker non se la passava bene e allora si è intervenuti con un progetto complessivo per rifare praticamente tutto: il cemento, i canestri (forniti da Spalding), un segnapunti digitale molto bello, gli spalti e le nuove panchine per le squadre, che prima non c'erano.
Sul campo, pitturato in oro e nero, i colori della NBPA, non poteva mancare un'opera di street art, tendenza ormai diffusa ovunque nel mondo contemporaneo e di cui avevo parlato qui su Galis. L'artista di Harlem A$AP Ferg ci ha dipinto un omaggio al pok ta pok dei Maya, quel cruento gioco-rituale (chi perdeva veniva sacrificato agli dei) praticato dal popolo precolombiano e considerato una sorta di antenato del basket. Ne avevo trattato in questo mio post insieme ad altri quattro possibili antesignani del nostro amato sport.
Un bel lavoro, quello di A$AP Ferg, che chiaramente si apprezza di più con una veduta a volo d'uccello piuttosto che trovandosi lì sopra, ma in cui si possono ben distinguere i due anelli, che nei luoghi degli antichi Maya adibiti al pok ta pok erano di pietra, decorati con simboli religiosi e posti perpendicolarmente (e non parallelamente) rispetto al terreno. In quei cerchi i giocatori dovevano far passare una palla utilizzando solo gomiti, spalle, testa, fianchi, ginocchia. La sfera di caucciù, ritenuta sacra, non poteva infatti essere toccata con mani e piedi. Auguri.
Nelle intenzioni dell'artista, lo spirito guerriero dei Maya è un omaggio a quello della popolazione di Harlem, che ha sempre lottato per emergere e per affermare i propri diritti. All'inaugurazione sono intervenuti numerosi rapper, baller, ex giocatori, tra cui Doctor J, ma anche Connie Hawkins, uno dei mostri sacri del Rucker, Nate “Tiny” Archibald, Smush Parker, persino Joe “The Destroyer” Hammond e Richard “Pee Wee” Kirkland, la coppia più temuta in campo e fuori nella Harlem anni '70. Due elementi che in gioventù erano a loro agio con una palla a spicchi in mano così come nel gestire attività losche per le strade. E che oggi, dopo mille vicende di vita e non tutte certo rose e fiori, sono tornati lì a contemplare quello che fu l’indiscusso teatro delle loro gesta, insieme alle giovani generazioni che anche loro sognano una vita migliore giocando a basket a Rucker Park. Fa un po' strano, no?
The Shot...attoo
Ti ricordi Curtis Jerrells, che abbiamo rivisto per qualche partita negli ultimi playoff italiani con la Reyer Venezia? Oggi gioca in Egitto, nello Zamalek, la squadra tra l'altro vincitrice della prima edizione della BAL. 34 anni, texano di Austin, è uno degli innumerevoli statunitensi che, non trovando spazio in NBA, si è costruito una lunga e variegata carriera overseas, anche se non certo stellare, toccando comunque alcune piazze importanti del basket europeo.
In Italia è arrivato nella stagione 2013-14 per vestire la maglia dell'Olimpia Milano, che poi avrebbe indossato di nuovo dal 2017 al 2019. L'anno successivo è stato in forza alla Dinamo Sassari. Con Milano ha vinto due scudetti, nel 2014 e nel 2018. Di questi, senza nulla togliere all'altro, il più memorabile è senza dubbio il primo. Per almeno tre motivi: uno, l'Olimpia tornava sul tetto d'Italia dopo diciotto lunghi anni, durante i quali aveva rischiato pure il fallimento, prima di trovare l'uomo del futuro in Giorgio Armani e comunque passando attraverso altre quattro finali perse senza mai trovare il bandolo della matassa; due, l'Olimpia, in quella stagione guidata da coach Luca Banchi, metteva fine non solo alla dinastia della Mens Sana Siena durata sette campionati consecutivi, ma in un certo senso anche alla Mens Sana stessa, perché pochi giorni dopo la società biancoverde, coinvolta nei disastri della Montepaschi, veniva dichiarata fallita; tre, ed eccoci a Jerrells, proprio lui segnava il buzzer beater decisivo di gara 6, riportando tutto al Forum di Milano dove, nonostante un'orgogliosa Mens Sana, in gara 7 l'Olimpia prendeva il sopravvento nell'ultimo quarto grazie, ancora, a importanti punti realizzati dal texano.
Per Milano, quello scudetto è stato una gigantesca scimmia tolta dalle proprie spalle. E, di riflesso, il canto del cigno di un'avventura ai limiti dell’incredibile, anche per come è andata a finire, che ha visto protagonista in Italia e in Europa la piccola città toscana. La quale, a distanza di oltre sette anni, è tuttora lontanissima da un ritorno nella pallacanestro che conta.
Così quella gara 6, nonostante ci fossero ancora quaranta minuti da disputare, decise “moralmente” l'esito dei playoff 2014. E avrebbe potuto regalare a Siena un ottavo scudetto, assolutamente surreale, dal momento che il club, sommerso dai debiti e dalle irregolarità, sarebbe scomparso lo stesso pochi giorni dopo. Così come surreale fu l'atmosfera di quel caldo 25 giugno, quando la squadra di coach Marco Crespi, dopo aver ribaltato la serie da 0-2 a 3-2, ebbe addirittura il match point in casa. Ma il tiro sulla sirena di Curtis Jerrells, autore di uno dei momenti iconici della storia della Serie A, gettò nello sconforto i cinquemila del PalaEstra che prima della palla a due avevano intonato un canto della Verbena da far tremare i polsi.
Un vero e proprio The Shot, espressione piuttosto abusata, sulla quale vigerebbe una sorta di triplo “copyright” di Michael Jordan – il tiro con cui vince il titolo NCAA 1982 con North Carolina; il buzzer beater contro Craig Ehlo dei Cleveland Cavs nei playoff 1989; il canestro immortale in gara 6 delle Finals 1998 che stende gli Utah Jazz – ma che in realtà ogni giocatore trovatosi a segnare il canestro decisivo di una partita importante ha il diritto di fare propria.
Perché un buzzer beater è sempre un buzzer beater, il momento più emozionante che possa accadere in una gara di basket. E quello di Jerrells, forse il punto più luminoso della sua carriera, è avvenuto a Siena, lanciando Milano verso il ritorno al successo e spegnendo una delle dinastie più lunghe e titolate del basket italiano, revoche giudiziarie a parte.
A distanza di oltre sette anni, ormai avviato sul viale del tramonto, Curtis ha voluto rendere il giusto tributo a quel tiro, portandolo sempre con sé. Infatti, si è tatuato sulla schiena, in una forma che ricorda un po' il giovanile Chosen 1 di LeBron James, le parole The Shot. E la “o”, guarda un po' cos'è? Il logo dell'Olimpia Milano. Che vivrà per sempre sulla pelle di uno dei giocatori che hanno vestito la storica divisa biancorossa, firmandone uno dei momenti più esaltanti.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Visto che ho parlato del rinnovamento di Rucker Park, ecco il solito gran bel servizio del New York Times (in inglese).
Intanto Jimmy Butler fa sul serio con il suo caffè: ne scrivo qui.
Puma prosegue il grande stile il ritorno nel basket lanciando la prima signature shoe di LaMelo Ball. Ne parla Fabrizio Giuffrida su Outpump.
E questo è sempre LaMelo Ball, all'opening night. Ah.
Federico Mariani su La Gazzetta dello Sport passa in rassegna i garage delle superstar NBA raccontandoci le loro lussuose preferenze in fatto di motori. Questo è Giannis, dentro trovi i link ai pezzi su altri giocatori.
Ancora Outpump e ancora moda: Leonardo Brini spiega lo stile di Spike Lee attraverso 10 outfit iconici, nei quali non manca il basket.
Nel quartier generale Nike in Oregon è sorto un edificio che si chiama LeBron James Innovation Center. E all’interno c'è un campo da basket da sogno. Qui ho scritto un po' di cose in merito, con foto.
Vaccini e oltre: tutte le volte che Kyrie Irving ha fatto parlare di sé. Le raccoglie Francesco Gerardi su Rivista Undici.
In questo sito puoi avere un quadro chiaro, partita dopo partita, di tutte le divise utilizzate dalle squadre NBA.
A proposito di maglie, ho recensito qui NBA Jersey Stories di Stefano Belli. Un libro che ripercorre la storia della lega attraverso le sue divise più significative.
Tra i nuovi arrivi editoriali c’è anche Walter De Raffaele, allenatore della Reyer Venezia, autore di un volume di coaching. Titolo: Umilmente ambiziosi. Eccolo nel pezzo di Giuseppe Malaguti per Sportando.
Vuoi fare un giro nell'archivio fotografico della Federazione Italiana Pallacanestro? Entra qui.
In estate, purtroppo, è scomparsa la Scandone Avellino. Mi era sempre piaciuta, dai tempi della B con Frascolla e Totaro ai successi in massima serie. Michelangelo Freda su Contrasti ricostruisce storia e tappe di un’agonia.
L'azzurra del 3x3 Giulia Rulli ha parlato delle fragilità psico-sociali degli atleti con Alessandra Ortenzi e Raffaella Masciadri, per Sportive Digitali. Su Sport Donna trovi articolo e video.
Marina Brudaglio di Rolling Stone scrive di Sisterhood, documentario sul basket di strada: tre storie di donne, riscatto e libertà tra Roma, Beirut e New York.
C'è un vecchio episodio di football americano che ha a che fare con le scarpe da basket. Lo racconta Simone Martino su The Blitz.
Chi ha inventato il logo NBA? Te lo dice Sky Sport.
Sai che ora puoi registrare un dominio .basketball? C’è tutto qui!
Daniele Vecchi firma su La Giornata Tipo un grandioso omaggio a Dan Peterson. Fenomenale.
Ora un po' di podcast in italiano. Oh, sono tanti quelli sul basket, forse troppi. Quindi ne segnalo solo alcuni.
Davide Chinellato e Riccardo Pratesi de La Gazzetta dello Sport sono ripartiti con NBA Milkshake, quarta stagione. IMHO, un podcast snello, agile, che non annoia. E la nuova sigla spacca!
Dario Vismara di Sky Sport e L'Ultimo Uomo conduce Air Vismara, che sulla piattaforma Fenomeno ha raccolto l'eredità di Passi.
Nel frattempo Ball Don't Lie è arrivato all'undicesima stagione, con oltre 430 puntate. Complimenti davvero.
Sempre più attivo su questo fronte il team di Overtime con Storie in Cuffia. C'è anche un podcast sul basket femminile condotto da Letizia Bimbo, LBF Open Mic, che ha esordito con due interessanti interviste a Rae D'Alie e Giorgia Sottana.
Ricordi la guida al salary cap, sempre di Overtime? Se preferisci ascoltare anziché leggere, eccola in versione audio.
E per finire sono arrivati Alessandro Mamoli e Matteo Soragna di Sky Sport con il loro podcast sulla NBA, Area 52, che è anche un canale Twitch.
Ma quanto “tirano” i podcast in Italia? Tutti, non solo quelli di sport? Puoi scrutare un po’ di dati in questo studio di Alessandro Piccioni per Tonidigrigio.
Poi, su Facebook sono ripartite le video recensioni di libri di basket con Simone e Riccardo di BasketBooks.
E prima di passare alle conclusioni, goditi questo video di Wilson con Trae Young che ti porta nelle strade e nei playground di Atlanta.
Conclusioni
Eccoci arrivati alla fine di Galis #10. Spero che questo numero ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la mia newsletter, mensile e gratuita.
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È tutto, ci vediamo il 30 novembre. Ciao e buon Halloween! 🎃