Ciuff si gira!
#30 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi l'intervista a Michele Pettene, giocatori NBA a Milano e cosa succede a Roma
Ciao, qual è il film di basket che ti porti dentro? Per conoscere il mio, continua a leggere.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il numero 30 di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di pallacanestro come cultura e stile di vita.
Nella scorsa uscita – se te la sei persa, rimedia qui – ho scritto dei Golden State Warriors e del loro rapporto con la Silicon Valley, della scomparsa di Jim Brown e degli LBA Awards per marketing e digitale.
Oggi torno al sempre attuale e interessante connubio tra basket e cinema e lo faccio intervistando Michele Pettene, che è un grande esperto di entrambi e un giornalista e autore di assoluta qualità.
Mettiti comodo e prepara i popcorn!
Bucare lo schermo
Avevo già parlato di basket e cinema in questo post del mio blog e nel numero 9 di Galis, più varie recensioni di singoli film, ma oggi è tutta un'altra cosa.
Perché con Michele Pettene, che ringrazio di cuore per la disponibilità e che in fatto di cinema ha una competenza enormemente più profonda di me, abbiamo spaziato a ruota libera sul legame tra lo sport che amiamo e il grande schermo, dai classici ai titoli più recenti, dai gusti personali a cosa si muove fuori dai “soliti” Stati Uniti. E ne è uscita una bella roba.
Pettene è giornalista e scrittore di basket e cinema, collabora con realtà importanti come Esquire Italia, Sky TV e L'Ultimo Uomo e ha scritto, tra gli altri, per Rizzoli il libro Basketball Journey e tradotto per ADD editore Gli dei dell'asfalto di Vincent M. Mallozzi.
Michele, ci sono sport considerati “cinematografici” per eccellenza, come il pugilato, e altri quali baseball e football che lo sono diventati perché in America rappresentano la cultura nazionale. Il basket forse viene un gradino sotto, ma è comunque protagonista di un rapporto intenso con Hollywood: secondo te, quanto è davvero “cinematografico”?
Penso che, tra tutti gli sport, la pallacanestro all'interno di un set cinematografico rimanga tra i più difficili da rappresentare con credibilità, per l'elevato grado di atletismo richiesto ai protagonisti, per la sua iper dinamicità e per la difficoltà nella riproduzione dei suoi gesti tecnici al più alto livello: non si può fare con poco budget (a meno di avere dei super montatori), anche avendo a disposizione cestisti professionisti come attori. Per farsi una rapida idea su quanto sia complicato, basta dare uno sguardo all'incredibile making of di Winning Time: The Rise of the Lakers Dynasty, la serie sulla rivalità tra Magic e Bird negli anni Ottanta.
E poi scrivere un film sulla pallacanestro comporta una lunga serie di conoscenze culturali e tecniche che, se non maneggiate con cura, ricerca, rispetto ed equilibrio, possono portare a risultati superficiali, addirittura trash. Sono tutti dettagli che colpiscono anche i semplici appassionati di sport che in qualche modo hanno vissuto l'esperienza concreta su un qualsiasi campo, dal playground al calcio, e che nel bel mezzo di un'azione di gioco davanti allo schermo si ritrovano a dire “ma questo non può essere vero, non potrebbe capitare mai!”.
Uno dei casi più eclatanti e recenti è il remake, molto deludente, di Chi non salta bianco è, dove ad esempio, tra le miliardi di cose che non hanno funzionato, la scelta dell'attore bianco – il rapper Jack Harlow – non risulta assolutamente credibile. Ma, per ragioni di marketing, ha vinto su altre scelte: ho riso per non piangere. Se invece tutti questi dettagli sono curati, le scelte fatte con i giusti criteri e il budget a disposizione almeno discreto, allora il prodotto cinematografico “film di basket” secondo me è già e rimane assolutamente competitivo rispetto ai principali sport che vediamo più spesso rappresentati al cinema.
Pensi che i film di basket siano destinati a restare di nicchia o possono avere una loro importanza nella cultura contemporanea e nell'immaginario collettivo?
In base a quanto detto, quando sono realizzati con i sacri crismi i film di basket sono destinati a “rompere” la nicchia di cui parli, e in cui ovviamente mi inserisco, e a “esplodere” nell'immaginario collettivo: le gesta sul campo – se girate bene – sono troppo esaltanti per non imprimersi nella mente dello spettatore, e il classico schema caduta-redenzione che spesso accompagna queste storie è perfetto per il dramma e l'epica richiesti dal grande schermo. E senza tener conto del genere documentario, che ha regalato perle memorabili entrate nella pop culture mondiale.
Quali sono i film di pallacanestro a cui sei più legato e/o che ritieni più significativi per il nostro sport?
Personalmente parlando, i titoli coincidono. Perché i film a cui sono più legato, inevitabilmente quelli degli anni '90 con cui la mia generazione è diventata “grande” – Chi non salta bianco è, Space Jam e He Got Game – credo siano tra i più longevi e inspirational ancora oggi. Molto di quanto è arrivato dopo è figlio di quei tre diversi approcci: il playground e il trash talking con attori famosi (e caciaroni) ma non players professionisti, il cartoon con effetti speciali-bomba e colonna sonora “black” con protagonista il GOAT MJ e il drammone ispirato a fatti più o meno accaduti a ogni grande liceale d'America girato con raffinato stile d'autore. Tutti e tre hanno in comune – certamente gli ultimi due, ma pure White Men Can't Jump – giocatori iper credibili per il contesto in cui recitano.
Mi divertono i tanti “cloni” di Hoosiers - Colpo vincente, con protagonisti allenatori in cerca di riscatto: evidentemente sono personaggi che funzionano molto in America, ma attecchiscono meno da noi. Io non ne sono un gran fan, da Coach Carter in giù: troppa retorica.
Due nuovi filoni sono quelli con protagonista Adam Sandler: uno inaugurato dai newyorkesi Safdie Brothers con Uncut Gems, tra scommesse cestistiche e leggende come Kevin Garnett che “bucano lo schermo”, fattori che si prestano a innumerevoli e future variazioni sul tema; l'altro quello che coinvolge giocatori internazionali come Juan Hernangómez in Hustle, che apre ai mercati non-USA e potrebbe attingere alle stelle più rappresentative delle altre nazioni (a patto che sappiano recitare perlomeno decentemente). Tra serie e documentari, non posso non citare Hoop Dreams e due prodotti della serie 30 for 30 di ESPN: Survive and Advance con la storia di coach Jim Valvano e Once Brothers, che hanno segnato molti film successivi.
Il mio preferito è He Got Game, che quest'anno ha compiuto 25 anni, come il famoso canestro di Michael Jordan nelle finali NBA 1998. Possiamo dire che Spike Lee rappresenti il top, lato cinema, del rapporto tra basket e lifestyle?
Spike è sicuramente il primo nome che viene in mente con il binomio “basket & cinema”, soprattutto perché nel 1998 He Got Game arrivava dopo già 15 anni di carriera di Lee al servizio, in un modo o nell'altro, della palla a spicchi. Dai primi spot Nike con Michael Jordan negli anni Ottanta alla scena-culto sulle Air Jordan nel suo capolavoro Fa' la cosa giusta, passando per il doc altrettanto di culto Kobe Doin' Work e alle miriadi di altri riferimenti lungo la sua filmografia, Spike Lee è “Il Regista” per antonomasia di questo sport, e ancora oggi, a distanza di oltre due decenni da He Got Game, quando viene inquadrato a bordocampo al Madison Square Garden i telecronisti non riescono a non menzionare qualche aneddoto su Jesus Shuttlesworth/Ray Allen.
He Got Game è stato a lungo un'ossessione per me. L'ho rivisto decine di volte e nei miei viaggi a New York ho ripercorso i luoghi che fungono da “set di strada” alle meravigliose scene del film, con apice il piccolo playground dove Allen sfida un incredibile Denzel Washington in uno contro uno: è a Coney Island, vicino alla linea sopraelevata della metropolitana, per chi volesse avventurarsi, ma occhio che non è una bella zona.
Altre mie due piccole ossessioni legate a He Got Game all'epoca furono Rosario Dawson, giovanissima e di-vi-na, e la salopette di jeans di Ray Allen, per me l'outfit più cool di sempre e un po' l'emblema, insieme alle Jordan XIII bianche e nere indossate da Denzel, di quella street culture e black culture che stava prendendo piede anche grazie ai rapper Tupac e The Notorious B.I.G. e che oggi ritroviamo protagonista ovunque, Italia compresa. Sempre grati a Spike!
Negli ultimi anni stiamo assistendo a una nuova fioritura di film di basket, molto diversi tra loro: Tornare a vincere e Air, entrambi con Ben Affleck, il disneyano Rise su Giannis Antetokounmpo, High Flying Bird e Hustle su Netflix, Space Jam: A New Legacy, il remake di Chi non salta bianco è. Li hai visti tutti? Ce n'è qualcuno che ti ha impressionato?
Li ho visti tutti, ma pochi mi hanno convinto. I due prodotti più originali sono sicuramente il già menzionato Hustle - che ha offeso però l'intera categoria degli international scout, troppo romanzata - e High Flying Bird di Steven Soderbergh, girato interamente con un iPhone, che tratta temi poco conosciuti come il lockout immergendoci nelle contraddizioni più nascoste e ipocrite di quella mega multinazionale chiamata NBA.
A Ben Affleck possiamo invece dire grazie per le intenzioni e per avere investito tanto tempo e denaro nella pallacanestro, ma i risultati sono un po' troppo conservatori, didascalici. Poteva insomma osare di più, anche se la storia della firma con Nike di Michael Jordan sono sicuro diventerà un piccolo culto. Su Rise non mi pronuncio troppo, ma il prodotto è vomitevolmente retorico e troppo disneyano per i miei gusti, nonostante la vita di Giannis sia clamorosa, mentre Space Jam: A New Legacy con LeBron James fa il paio con il remake di Chi non salta bianco è: non all'altezza degli originali.
Se usciamo un attimo dagli States, qualcosa di perlomeno divertente e recente è Campeones, film spagnolo (ora su Amazon Prime Video), recitato con freschezza e privo dell'odiata retorica, nonostante ci sia il solito allenatore in cerca di redenzione con una squadra di disabili, mentre dall'Asia “malata” di basket due film in cui vediamo scene cestistiche magistralmente girate sono il taiwanese We Are Champions e il sudcoreano Rebound. Manca, tristemente, un vero film italiano sulla pallacanestro: che sia giunta l'ora?
Per concludere, quale storia di basket ti piacerebbe venisse raccontata in un futuro film?
Ecco, appunto. Considerata l'assenza cronica di film di sport in Italia – non li sappiamo fare, eppure avrebbero un potenziale incredibile, senza per forza tornare a robe come L'allenatore nel pallone – vorrei tanto vedere sul grande schermo la storia di Gabriele “Il Piazz” Piazzolla, incredibile talento (e personaggio) milanese scomparso tragicamente nel 2006; oppure un film da playground sulla falsariga di Chi non salta bianco è: già solo lo storico campetto di Milano dove ancora provo a giocare, quello di Via Dezza, proporrebbe una rosa pressoché infinita di personaggi perfetti per il cinema. Ma credo che in molti potrebbero dire la stessa identica cosa dei loro rispettivi playground, dai Giardini Margherita di Bologna in giù. Speriamo solo che qualche produttore se ne accorga: il materiale a cui attingere, sia maschile che femminile, sarebbe da Oscar immediato.
Grazie ancora Michele, e complimenti.
NBA in un Bocconi
Cosa ci fa un gruppetto di giocatori NBA a Milano, seduti ai banchi di un'università in pieno giugno? Ogni anno, a stagione conclusa, frequentano il programma organizzato dalla loro associazione, o sindacato se preferisci – la NBPA – presso la SDA School of Management della Bocconi, dove acquisiscono un po' di know how per costruirsi – quando si saranno ritirati, ma anche già da adesso – quella che in ambito sportivo è chiamata dual career. Perché, che piaccia o meno, la vita non si esaurisce sul parquet.
Il programma è One Court ed è attivo dal 2017 (fino al 2019 aveva il nome di International Business Academy). Qui, attraverso lezioni con i docenti della Bocconi e incontri con imprenditori, creativi e manager di brand di interesse globale, espandono le proprie conoscenze di economia e marketing, con un accento particolare su moda, finanza e tecnologia, settori ben rappresentativi del dinamismo della metropoli lombarda e ai quali – il fashion in particolare – gli atleti NBA sono molto interessati. E per qualche giorno si godono Milano.
Tra i presenti, quest'anno, Jaren Jackson Jr., Myles Turner, Patty Mills, Kevon Looney, Isaiah Thomas, Kelly Olynyk, Javale McGee, Kevin Porter Jr., Immanuel Quickley. Tutti messi di fronte alla prospettiva di imparare a gestire i propri investimenti, business e immagine, anche quando i giorni sul campo saranno finiti. Un'occasione per fare rete e imparare in una struttura d'eccellenza come il rinomato ateneo privato. Immancabile la presidente della NBPA Tamika Tremaglio, intervistata da Dario Vismara per Sky Sport (l'articolo qui) sull'iniziativa milanese, sul futuro della lega con il nuovo contratto collettivo e sul ruolo dell'associazione che guida.
E nella NBPA, da alcuni anni, c'è un manager italiano, Matteo Zuretti, nell'importante ruolo di Chief of International Relations and Marketing, che commenta così il programma One Court:
Con la continua crescita del gioco a livello globale, i nostri giocatori si stanno esponendo sempre di più a opportunità di business in tutto il mondo. One Court Milan si propone di sviluppare ulteriormente i giocatori come cittadini cosmopoliti e uomini d'affari globali, fornendo loro le conoscenze e la rete per continuare a costruire il loro brand e creare partnership d'impatto.
(Ri)costruire Roma
Come altre volte nei precedenti numeri di Galis, torno a dare uno sguardo a Roma. Non tanto per mia vicinanza geografica, quanto perché sono convinto che l'assenza della capitale dal basket ad alto livello sia un danno per tutto il movimento italiano. E poi perché lo scenario sta cambiando ancora, intrecciandosi con temi quali impiantistica e modelli di organizzazione sportiva.
Ricapitolando, tra 2020 e 2022 Roma ha perso le sue due principali rappresentanti: la storica Virtus e la giovane Eurobasket, entrambe per inadempienze economiche, una ritiratasi a campionato in corso dalla serie A e l'altra estromessa dalla A2 per il lodo di un ex giocatore americano. Ora – e tre! – potrebbe aggiungersi la Stella Azzurra, intenzionata a rinunciare alla A2 per dedicarsi solo alla già fiorente attività giovanile, nonostante il club rischi di essere travolto dallo scandalo dell'arresto per abusi sessuali di un suo allenatore.
Nel frattempo, la Virtus Roma 1960 di Alessandro Tonolli – società tutta nuova e in qualche modo unica erede plausibile della vecchia Virtus, ma priva di logo originale e trofei rimasti al proprietario Toti – ha vinto al secondo tentativo la C Gold, conquistando insieme alle concittadine Carver e Pass la promozione nella nascitura B interregionale (una sorta di B2, come una volta, anche se diversa). Sembra che questo club sia intenzionato a crescere gradualmente sul campo, senza acquisire titoli sportivi.
E poi è arrivata la sorpresa dell'anno, nonché possibile e nuova prima portacolori capitolina: la LUISS, la squadra dell'università di Confindustria, fresca di una clamorosa promozione in A2 dopo una lunga gavetta tra B e C (è attiva dal 1999). Una novità assoluta per Roma e per l'Italia: un team di studenti-atleti pagati con borse di studio è riuscito a raggiungere una categoria professionistica. Se confermerà la partecipazione al secondo campionato nazionale, qualcosa dovrà cambiare, anche perché senza americani è difficile essere competitivi: sarà interessante da seguire.
Su una Virtus 1960 in crescita e una LUISS che incuriosisce non poco, incombe tuttavia il solito problema: dove giocare? Il Palazzo dello Sport dell'Eur è troppo grande e costoso per le esigenze attuali, il Palazzetto di Viale Tiziano è alle prese con una ristrutturazione che sembra non finire mai (si parla di settembre-ottobre, ma non ci crede nessuno). Per il resto Roma ha solo “palloni” e palestre di quartiere, non sempre disponibili e difficilmente omologabili: sembra già un miracolo che la LUISS abbia disputato la B nel suo vecchio impianto di Piazza Mancini. C'è il palasport di Guidonia come soluzione rapida e già testata, ma giocare fuori città alla lunga è inutile. E nessuno parla di una struttura temporanea, come quella di Bologna (ma andrebbe bene anche un terzo della Segafredo Arena…).
Così, mentre c’è stata pure una rimpatriata della Virtus campione d'Italia 1983 a quarant’anni dallo scudetto, il grande basket continua a rimanere lontano dalla Città Eterna. Roma non si (ri)costruisce in un giorno.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Ehi, c’è ancora Michele Pettene! Qui, su Esquire, ha intervistato David Hollander, professore della New York University e autore di un libro uscito anche in Italia, su come il basket può salvare il mondo.
Maria Barone racconta invece su Never Ending Season la sua esperienza al Court MLN, il campo da basket coperto di Milano aperto dai Da Move: qui il suo articolo.
Intanto, Fendi lancia una capsule collection dedicata al basket.
Poteva mancare una disamina sugli outfit più clamorosi del Draft NBA? Certo che no e ci ha pensato Claudio Pavesi di Outpump.
Le signature shoes in arrivo per vari giocatori NBA, noti e meno noti: la galleria di Sky Sport.
Hai presente Kellogg's, quelli dei cereali? Riqualificano un playground a Milano, in Via Goya: qui il comunicato stampa.
Il Quai 54, il famoso torneo streetball di Parigi, quest'anno festeggia il 20° anniversario e Jordan Brand lo celebra con una collezione speciale: così Matteo Ciaramella su NSS Sports.
LaMelo Ball ha fatto tappa a Milano con Puma e Around The Game ha partecipato all'evento: racconta tutto Leonardo Pedersoli.
Gli episodi più strani che hanno visto protagoniste le mascotte NBA: li ha messi insieme Jacopo Pozzi su La Gazzetta dello Sport. (solo abbonati)
Big data applicati al basket e allo sport: Pietro Vernizzi di Rai News ha intervistato la professoressa Paola Zuccolotto sul lavoro di BDSports, équipe dell'Università di Brescia dedita alla materia.
Tre robe molto interessanti da Backdoor Podcast:
Un'intervista a Gianmaria Vacirca, ed è sempre valido starlo a sentire.
Jack Nicholson regista di un film legato al basket: te lo racconta Simone Mazzola.
The Process, il podcast di Luca Virgilio che narra dall'interno i Nebraska Huskers di NCAA. Virgilio ne è il Director of Basketball Strategies and Business: ascoltalo qui.
C'è un nuovo premio letterario sportivo internazionale, intitolato a Pietro Mennea: se vuoi partecipare, trovi il bando e tutte le info qui.
Non ci crederai, né so quanto ne avessimo bisogno, ma sta per tornare lo Slamball: Simone Altrocchi di Dunkest fa un riassunto.
Ricordi Jeremy Renault, il fotografo francese che vive in Giappone e avevo intervistato qui? È fotografo di scena per The Groundwork: Growing Basketball in Japan, documentario originale Rakuten (il colosso streaming nipponico) sulla riqualificazione di playground a Tokyo. E c'è pure Steph Curry.
Giugno è stato il mese degli esami di maturità: alcuni maturandi delle squadre di Serie A si sono incontrati nel format Notte prima degli esami, a cura di LBA e A Better Basketball, con conduzione di Camilla Vescovi. Ecco il video.
Ma quanto è bello il logo, e anche il nome, della nuova affiliata G League dei Portland Trail Blazers?
L’ultimo capolavoro dell'illustratore Davide Barco: un pallone ispirato alla lettera al basket di Kobe Bryant. Scoprilo qui.
Per finire, un po' di libri.
Qui ho recensito Dove non c'è promessa del domani, autobiografia del giovane Carmelo Anthony edita da 66thand2nd.
Sono in arrivo o usciti di recente:
Come il basket può salvare il mondo di David Hollander (Mondadori): quello a cui accennavo poco fa.
I mondiali di basket di Nunzio Spina e Roberto Quartarone (Simple).
Ancora un libro sul Re: il 4 luglio esce LeBron James. Il predestinato di Salvatore Malfitano (Diarkos).
Marco A. Munno è l'autore di Almanacco 3x3 Italia 2023, edito da Lab DFG.
In inglese, Sixty-One di Chris Paul, scritto con Michael Wilbon.
Sempre in inglese, Leading with the heart di Mike "Coach K" Krzyzewski, con Donald T. Phillips.
Conclusioni
Eccoci alla fine di questo numero 30 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter. Mi raccomando, spargi la voce!
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È tutto, ci vediamo il 31 luglio. Ciao e buona stagione al campetto!