Sei tu Gesù di Coney Island?
#9 - Basket, cultura, lifestyle: qui trovi film di pallacanestro, appunti sul nuovo Space Jam e alcuni festival
Ciao, non so se ci hai fatto caso, ma io e te ci troviamo in un'epoca in cui il sequel di Space Jam è uscito già da una settimana.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il nono numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season. Entrambi sono dedicati a basket, cultura e lifestyle.
Un mese fa avevo scritto proprio di Space Jam, ma di quello del 1996. Se ti sei perso l'uscita numero otto, recuperala qui. Riguardo al nuovo film, invece, puoi leggere più avanti alcune mie considerazioni dopo averlo visto in sala.
Oggi restiamo comunque in tema di cinema, perché ti parlerò un po' a ruota libera, e in chiave assolutamente personale, del rapporto tra pallacanestro e settima arte.
Ecco, cercando un sinonimo di “cinema”, sono finalmente andato a scoprire il motivo di questa definizione, una curiosità che non mi ero mai tolto: nel 1921 un critico, tale Ricciotto Canudo, lo aggiunse alle sei arti della tradizione classica, che sono architettura, musica, pittura, scultura, poesia, danza.
Con il Trivial Pursuit è tutto, ora giochiamo a basket.
10 film di basket da vedere
Devi sapere che gran parte delle visite al mio blog la faccio grazie alla SEO. Insomma, Never Ending Season lo trovano su Google. E non è poco, anzi. Però il ruolo dei canali social – pagina Facebook e profilo Instagram – è minoritario. Attivo, ma minoritario. Purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista. Credo che tu sappia bene quanto, al giorno d'oggi e dopo oltre dieci anni che abbiamo a che fare con queste piattaforme, sia difficile e impegnativo portare gli algoritmi dalla tua parte, soprattutto se non hai risorse economiche da investirci, non sei tipo da colpi di genio creativi né hai in mano la gestione dei social di un marchio o di un personaggio importanti. Oltre a ciò, neppure io, del resto, aspiro a essere un influencer né a far confluire nei social media tutta la mia professione.
Quindi, tirando le somme, dopo poco più di due anni di intensa attività, Never Ending Season non è una potenza dei social. Lo dico tranquillamente. È infatti un pesce piccolo, niente che possa neanche lontanamente avvicinarsi alle più celebri e frequentate pagine di basket. È una ristretta community che segue con assiduità ciò che condivido e che spero di far crescere, ma per ora niente di più. Questa è anche una delle ragioni per cui ho creato Galis, diversificando i mezzi con cui arrivare al mio pubblico.
Di conseguenza, quando si tratta di produrre contenuti per il blog – o per il “sito”, utilizzando un termine che sta sorprendentemente diventando vecchio – è inevitabile che guardi alla SEO, pur rispettando sempre le buone pratiche di scrittura valide per il web. Infatti, se per caso frequenti un minimo il mondo della content creation, hai sicuramente letto su qualche guida che, per essere gradito a Google, un testo deve rimanere sempre originale e di qualità e soprattutto non snaturarsi in funzione delle parole chiave. Anche perché se no “Big G” ti penalizza e sei fregato. Invece, è importante mantenere il proprio stile, assolutamente non copiare e prestare giusto attenzione a qualche regola e accorgimento a cui adattare la propria scrittura. Un modo di scrivere che, a essere sinceri, una volta che ci hai fatto l'abitudine non è più né pesante né penalizzante, al di là di quelli che si lamentano di questa cosa.
Tutto questo noioso preambolo – comprendimi, Galis è mensile quindi questi miei giri di parole puoi anche metterli in pausa e leggerteli con calma – per arrivare a dirti che una tipologia di contenuto molto cara a Google è il cosiddetto listicle, l'articolo a lista: “10 cose da fare a...”, “i 10 migliori posti da visitare in...”, “le 5 giocate più belle di...” eccetera eccetera. Sai perché? Ti riporto tali e quali i miei appunti presi al corso di scrittura sportiva che ho frequentato a Roma tre anni fa, tenuto dalla preparatissima redazione de L'Ultimo Uomo. I pezzi a lista, soprattutto quelli su temi ben circoscritti e focalizzati, funzionano perché:
rimandano a un’idea di concretezza;
trasmettono già dal titolo un'interessante presa di posizione dell'autore, esprimendo un gusto o un orientamento preciso;
la classificazione è la più elementare forma di conoscenza;
aiutano a fare chiarezza in un universo molto caotico;
aiutano a combattere i cali di attenzione.
Quindi su Never Ending Season trovi svariate liste (eccole) e tra le prossime che avevo in mente di fare c'era anche un “10 film di basket da vedere”, titolo apparentemente banale ma al cui contenuto volevo dare un taglio personale.
Non avendo ancora avuto modo di scriverlo, colgo l’occasione per farlo qui su Galis. Dove tra l'altro, non avendo ottiche SEO da rispettare, posso spaziare liberamente, discorrendo dei miei film di pallacanestro preferiti senza badare a parole chiave e H1, H2. Così te ne cito una decina, raccontandoti alcune curiosità e soprattutto cercando di trasmetterti cosa significano per me. Escludo i due Space Jam, perché del primo ho parlato il mese scorso, del secondo trovi le mie impressioni più avanti.
Ho una personale triade di film di basket che considero i miei top in assoluto, più un altro come “menzione speciale” o fuori classifica. E in questa triade He got game occupa il posto più alto.
Spike Lee ha realizzato la sua - come l'ha definita lui stesso - “dichiarazione d'amore per il basket” nel 1998. Che è stato un grande anno, per me. Una sorta di pietra miliare da cui tutto è cominciato, ma anche uno di quei momenti dopo il quale le cose non sarebbero più state le stesse. Avevo sedici anni e proprio allora iniziai a prendere piena coscienza di me stesso, di cosa volessi fare nella vita. O meglio, di come volessi farlo, del modo in cui intendere la vita stessa. C'è un momento simile per tutti, no? Ad alcuni succede prima, ad altri dopo, a me è accaduto nel 1998. E un ruolo determinante in questa presa di coscienza lo ha avuto il basket, e in generale lo sport, che da allora mi ha ispirato con continuità.
Il ‘98 ha segnato una stagione inimitabile, con momenti che mi porterò sempre dentro, come la Coppa UEFA di calcio vinta dalla “mia” Inter di Ronaldo, “quello vero”, e i Mondiali di Francia vissuti con tutta la spensieratezza di un teenager, mentre nel basket ecco il leggendario The Shot di Michael Jordan, i derby di Bologna, i Mondiali dei canestri con il bronzo della Dirty Dozen americana, conseguenza di quel lockout che, paradossalmente, bloccò la stagione NBA proprio l'anno successivo a quello in cui avevo cominciato a seguirla con assiduità!
Ma in quell'autunno, a bocce ferme, ci fu modo di apprezzare He got game, come se il ritiro di Jordan dai Bulls avesse cristallizzato il tempo. Perché si tratta di un film in cui la presenza jordaniana, dalle scarpe indossate da Denzel Washington (le Air Jordan 13) al fotogramma della statua di Chicago durante quel capolavoro che è la carrellata di immagini di canestri che fa da sfondo ai titoli di testa, è fortissima. Al pari della ricerca di un nuovo messia cestistico, con Spike Lee che ci regala un sorprendente Ray Allen nei panni di Jesus Shuttlesworth, nonostante nella versione italiana il nome Jesus sia stato stranamente doppiato in un cantilenante e piuttosto fastidioso Gesù! Gesù!! Gesù!!! Una scelta che non ho mai capito, perché i nomi stranieri nei film non vengono doppiati, te l’immagini che urto se tutti i William, Peter, John che incontriamo nelle più svariate pellicole diventassero Guglielmo, Pietro, Giovanni? Anche se poi la frase che a un certo punto si ascolta in He got game, «Sei tu Gesù di Coney Island?», per me vale la visione di tutto il film, così come la sfida uno-contro-uno al playground Allen/Jesus vs Washington/Jake, che è il culmine assoluto.
Tanto per tornare al discorso delle liste, mi sono divertito a selezionare in questo post 10 rilevanti spunti e contenuti di basket presenti nel film, dall’ambientazione a Coney Island al significato di Black Jesus. He got game è un film “olistico” per quanto riguarda la pallacanestro, perché c'è dentro tantissima hoop culture. Ed è un viaggio nella vita e nelle miserie di ognuno di noi, tra flash immaginifici e lati oscuri. Perché oltre a essere un grande inno al basket, è anche una disamina di tutto ciò che vorrebbe contaminare la sua purezza.
Sembra strano che nella mia triade di film di basket, subito dopo uno così metropolitano quale He got game ce ne sia un altro che in fatto di ambientazione è l’esatto opposto. Sto parlando di Hoosiers – Colpo vincente, che ci porta nell'Indiana rurale, bianca, conservatrice degli anni '50. Un film che è poesia assoluta, dalla lirica intro al conclusivo “Vi voglio bene, ragazzi”, passando per le vecchie palestre come la storica Hoosier Gym, dove è stato girato nel 1986 e che oggi è tuttora conservata e aperta al pubblico come museo. A tal proposito, ti consiglio di leggere il capitolo dedicato a questo posto nel libro Basketball Journey di Alessandro Mamoli e Michele Pettene. E magari, se hai tempo, anche questo mio post, che ho inserito nel libro Il parquet lucido. Storie di basket (se ti interessa, acquistalo qui).
Il terzo film di basket che metto sul podio è un titolo meno noto al grande pubblico, ma che mi ha colpito - scusami l’espressione da bambino di terza elementare! - per la sua struggente storia di gloria e caduta: Rebound. The legend of Earl “The Goat” Manigault, italianizzato in Più in alto di tutti (la recensione qui). È un film per la tv prodotto da HBO nel 1996 e basato sulla travagliata e inesorabile esistenza del leggendario giocatore dei playground di New York. Una storia che però anche nei momenti più bui lascia trasparire un barlume di speranza, accompagnata dalle note di There's a place in the sun di Stevie Wonder.
Prima di passare agli altri sette film che ho selezionato, ti avevo accennato a un film fuori classifica: è Scoprendo Forrester del 2000, con Sean Connery e Rob Brown, che non considero propriamente un film di basket, perché i suoi temi principali sono altri, come l'amicizia e le convenzioni sociali. Ma è un film che amo perché dentro c'è proprio tutto quello che mi piace: il basket, la scrittura, New York, i taccuini. Completo, lo definirei.
Riprendiamo. Coach Carter è bello lungo, ma ti porta proprio nel cuore del basket delle high school. Guardandolo, ti penetra con il suono della palla sul parquet e l’atmosfera intrisa di sudore di una vissuta palestra scolastica. Storia interessante e vera, ti fa comprendere l'importanza di compiere un percorso. La mia recensione è uno degli articoli più letti di sempre su Never Ending Season.
Glory Road è invece molto disneyano, seppur racconti abbastanza fedelmente una delle imprese più importanti mai compiute da una squadra di basket, la Texas Western campione NCAA nel 1966 con un quintetto di soli giocatori di colore. Se cerchi una classica storia a lieto fine, questo è un film adatto. Degne di nota, anche qui, le location delle palestre d'epoca, insieme a tanti altri aspetti di cui ho scritto in questo post.
Poi ti metto Rimbalzi d'amore, titolo super naïf per la versione nostrana di Just Wright. Una commedia piacevolissima con protagonisti Common, nei panni di una stella NBA, e Queen Latifah. Sui contenuti del film, ti rimando alla mia recensione. Qui voglio evidenziarti un aspetto secondario, ma a mio avviso rilevante, che emerge dal film, cioè una tipica mentalità americana che dovrebbe essere applicata a ogni contesto: la professionalità, dare sempre il meglio di sé, la ricerca dell'eccellenza, specializzarsi ed elevare il proprio livello per riuscire a combinare lavoro e passione.
Un breve passaggio su Chi non salta bianco è. Non uno dei miei preferiti, ma di quelli che riscopri lentamente nel tempo. E dove i giocatori di strada sono vestiti talmente male che fatichi a individuare qualche prodotto di basket decente!
Su Netflix ho visto High Flying Bird di Steven Soderbergh, del 2019. Meritevole. Ti avverto: come ho scritto nella recensione, non è un film “facile”. È un film sul basket, ma di basket giocato se ne vede gran poco, diciamo pure nulla. Certi dettagli e sfumature sono davvero toste da afferrare per chi non è un insider della NBA e dello sport americano. E il ritmo incalzante dei dialoghi, che scandiscono l'intera narrazione, non aiuta di certo. Ma è una storia davvero ben costruita.
Restando in tempi recenti, non posso ometterti Tornare a vincere con Ben Affleck. Una storia di caduta e riscatto attraverso la pallacanestro. Il protagonista Jack Cunningham, uomo sconfitto che prova a rimettersi in gioco come allenatore di liceo, è un non-eroe comune e quotidiano, che sbaglia e lotta con i suoi mostri interiori, non sempre riuscendo. Un film che mette in risalto la vita di tutti i giorni di persone comuni di periferia, e Jack è uno di loro. Niente di patinato o luccicante, nessuno sogna la NBA e il glamour. Eppure, se c’è un minimo di speranza, quella assume le sembianze di un pallone da basket. Una metafora della nostra vita e di come la competizione possa aiutarci a capire meglio noi stessi. La scena finale, mi sento di dirti, è commovente. Punto. Ah, leggi qui.
Tornare a vincere chiaramente è da non confondere con Voglia di vincere – il titolo originale è Teen Wolf, ma forse già lo sai – che è anni '80 allo stato puro. E gli anni '80 hanno il volto di Michael J. Fox alias Marty (in questo caso Howard e non McFly, che nella versione originale si chiama Scott e non Marty, ma probabilmente sai anche questo). Uno spaccato della cultura di un decennio che vanta schiere di nostalgici seguaci. La semplicità della trama, dei temi e della psicologia dei personaggi, con un tocco di fantasy quanto basta per renderlo particolare, lo rendono una rilassante commedia evergreen. Un film da guardare e apprezzare anche per chi è nato o cresciuto dopo gli Eighties. Seppur nella sua profondità da pozzanghera, Voglia di vincere utilizza lo sport per lanciare messaggi non indifferenti. E lo fa con una semplicità che forse, oggi, abbiamo voglia di riscoprire vera, e non solo vuota e ingenua retorica da filmetto adolescenziale. L’idea che una squadra fatta di improbabili, se unisce gli intenti, da eterna perdente può arrivare al successo. Che gli arroganti sono destinati alla sconfitta. Che “se ti ci metti con impegno raggiungi qualsiasi risultato”, tanto per citare Ritorno al futuro. Che la vita è fatta di decisioni importanti e quella più importante di tutte, a volte, è scegliere di essere se stessi. O di leggere la mia recensione.
La mia lista di 10 film di basket da vedere (più uno) è terminata. Ma sono certo che ho lasciato fuori quello che invece intuisco essere il tuo preferito: Thunderstruck! Ho indovinato?
Space Jam. New Legends: appunti sparsi
La visione di Space Jam. New Legends ha segnato il mio ritorno in una sala cinematografica dall'era pre-pandemia. E devo dire che ne è valsa la pena, perché il film mi è piaciuto e il mio giudizio è positivo. Avevo limitato al massimo ogni possibilità di spoiler, così come diffidato delle prime critiche, che fanno parte del gioco. Sono così andato a vederlo con mente aperta a qualsiasi possibilità e ne sono uscito con grande soddisfazione. Ti butto giù qualche appunto ancora a caldo, anche perché un film, nei dettagli, lo apprezzi sempre nelle visioni successive.
Intanto, LeBron James un po’ di ragione ce l’aveva: non è proprio un sequel. Nonostante i vari richiami allo Space Jam del 1996, si presenta molto diverso. Il significato profondo della storia, cioè il rapporto tra padre e figlio – rispetto alla realtà, qui il rampollo si chiama Dom ed è un attore, così come fittizio è il resto della famiglia James, sia come nomi che come interpreti – si distanzia dai contenuti molto più ludici del primo film, dove il tema del ritiro dal basket di Michael Jordan, pur conseguenza di un evento drammatico della sua vita, è trattato con una certa leggerezza.
L’universo digitale in cui è ambientato gran parte di Space Jam. New Legends, compreso il campo in cui si gioca la grande sfida tra Tune Squad e Goon Squad, è uno spettacolo: design, colori, effetti, tutto veramente molto figo.
Poi, il doppiaggio in italiano – oh, non sono un esperto, quindi confutami pure – l'ho trovato assolutamente riuscito, soprattutto nei termini del gergo cestistico. La telecronaca di Flavio Tranquillo rende il tutto molto familiare e LeBron James con voce italiana – Gabriele Sabatini – è affascinante. Mi è piaciuto molto come ha recitato, e non era facile, perché questo è un film molto LeBron-centrico e quindi aveva una certa “pressione” addosso. Ma, come nel suo stile, non si è tirato indietro, ci ha messo la faccia e il massimo dell'impegno, sfoderando un'entusiasmante performance. Emozionante il «Siate voi stessi!» con cui incita i compagni, e che è un po' il leitmotiv di tutta la storia. È anche un film Bugs-centrico, con la differenza che Bunny è un cartone animato e non sbaglia mai, mentre 'Bron è un essere umano e quindi, rispetto al noto coniglio, aveva un compito leggermente più difficile... I due protagonisti sono comunque dominanti, gli altri giocatori di basket nonché il resto dei Looney Tunes hanno meno spazio rispetto ai comprimari del primo film. I riferimenti alla pallacanestro sono ovviamente numerosi, subito afferrabili per chi conosce la materia, ma anche abbastanza comprensibili per il resto del pubblico.
Se devo trovare un Neo – la maiuscola non è un errore – direi le forse eccessive citazioni di film, serie e personaggi Warner Bros, da Superman a Il Trono di Spade, da Batman e Robin alla saga Matrix, da King Kong a Wonder Woman, addirittura Freddy Krueger, che richiedono una preparazione di livello universitario in cultura pop. Anche se me la sono cavata lo stesso quando ho riconosciuto che la panoramica di Burbank con la sua iconica tank – il serbatoio dell'acqua con il logo Warner Bros – è la medesima che si vede nel film Argo con Ben Affleck, una co-produzione WB.
Tre piccoli spoiler, perdonami, te li faccio: hai presente Michael B. Jordan, l'attore di Creed? Bene, tienilo a mente. Poi c’è un LeBron in versione cartoon, molto particolare. E a un certo punto compare il LeBron umano nelle vesti di Morpheus di Matrix. Mi ha fatto piacere, inoltre, rivedere Don Cheadle in un film di basket, perché l'ultima volta era stata in Rebound, il film su The Goat di cui ti parlavo prima. E che uscì nel 1996, l’anno di Space Jam. Cerchi che si chiudono.
Infine, si è detto pure che la nuova Lola Bunny è poco sexy in nome del politically correct, ma questa è decisamente un'altra storia.
Il ritorno dei festival
La ripresa degli eventi pubblici in presenza sta incrementando a vista d'occhio ed è sicuramente uno degli aspetti più belli ed entusiasmanti di questa lotta alla pandemia, che ci auguriamo possa essere davvero entrata nella fase terminale. Gli eventi online non sono eventi, punto. C'è bisogno del contatto diretto, fisico, dal vivo, in una parola: vero. In questo ottobre tornano quindi due importanti appuntamenti con altrettanti festival di sport, dove non mancheranno momenti di basket.
Dal 7 al 10 ottobre ecco Il Festival dello Sport, organizzato a Trento da La Gazzetta dello Sport. Tra gli ospiti a spicchi Marco Belinelli, Boris Diaw, Cecilia Zandalasini, Meo Sacchetti, Gregor Fucka, Carlton Myers, Dino Meneghin, Stefano Tonut, Alessandro Gentile, Giuseppe Poeta, Diego Flaccadori, Riccardo Pittis, Frank Vitucci, Gianni Petrucci, Umberto Gandini, Flavio Vanetti e... Gianmarco Tamberi, perché ormai possiamo considerarlo anche un personaggio di basket, vero? Il programma completo lo trovi qui.
Dal 6 al 10 ottobre a Macerata torna, con la sua undicesima edizione, Overtime Festival. Tra gli ospiti, venerdì 8 Federico Buffa sarà intervistato da Dario Ronzulli sul tema I colori dello sport. In anteprima Overtime Festival ha già accolto, lo scorso 24 settembre, Walter Magnifico nel centro di Pollenza. Ulteriori informazioni sul sito ufficiale.
Concludo, prima di lasciarti allo Shootaround, con un accenno alla prima edizione di Socrates, festival sportivo-culturale svoltosi a Roma, nel III Municipio, il 17, 18 e 19 settembre. È confortante che iniziative di questo tipo stiano diventando sempre più numerose e che finalmente l'editoria di sport stia proliferando anche in Italia, e con lavori di assoluta qualità. Per l'occasione ho avuto il piacere di incontrare due grandi e competenti appassionati come Davide Piasentini de La Gazzetta dello Sport e Andrea Cassini, autore per varie realtà, che hanno presentato The Dream League, il libro collettivo sulla NBA realizzato dal team di Overtime - Storie a spicchi ed edito da Ultra, la stessa casa editrice del mio libro Il parquet lucido (un saluto anche a Federico e Angelo). Cassini, inoltre, ha parlato anche della sua ultima opera, la monografia Tim Duncan. Stile libero.
Shootaround – consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Davide Chinellato de La Gazzetta dello Sport ha parlato con Stefano Belli di NBA Passion di Giochi Olimpici, Space Jam e soprattutto del suo libro King. La biografia di LeBron James. Ecco il video integrale della live.
E niente, in questo numero è destino che tiri fuori gli articoli a lista: qui puoi scoprire i miei 10 soprannomi NBA preferiti.
Michele Pettene su L’Ultimo Uomo firma questo quadro di Luka Doncic, con sapiente aggiunta di immagini e dettagli in presa diretta da Lubiana.
Lo stesso Pettene è uno dei due traduttori italiani (l'altro è Pietro Scibetta) de Gli dei dell'asfalto di Vincent M. Mallozzi, la storia del Rucker Park che, a diciotto anni dall'uscita americana, finalmente possiamo leggere nella nostra lingua grazie ad Add editore. Qui c'è la mia recensione.
A proposito di Add: vi invito ad acquistare almeno un loro libro, qualsiasi esso sia. Un incendio ha messo fuori uso il palazzo di Torino dove ha sede questa casa editrice indipendente di grande qualità. Io ho preso Il pensiero bianco di Lilian Thuram, anche perché quelli di basket li avevo già tutti. Il catalogo puoi sfogliarlo qui.
Ok, il Rucker è il playground più famoso del mondo. Ma vai a vedere quanto è bello questo campetto di Montesilvano, in Abruzzo.
Il rapporto tra basket e arte contemporanea è piuttosto stretto. E tutto è cominciato con Jeff Koons. Ne parlo qui.
Zitte zitte, ma neanche troppo, le Air Jordan sono arrivate al modello 36: eccole.
Trae Young è tornato al Madison Square Garden, ma per Smackdown WWE. Ecco come è andata.
Il Rookie Transition Program è una settimana di orientamento che le matricole NBA sono obbligate a frequentare, fin dal 1986. Sembra che funzioni e Katie Heindl ne parla su Uproxx (in inglese).
La Montverde Academy è quel liceo privato della Florida che sforna stelle NBA. Ci racconta qualcosa Massimiliano Bogni su Backdoor Podcast.
Hai visto la partita di baseball che la MLB ha disputato nel “Field of Dreams”, il campo in mezzo alle distese di granturco dell'Iowa, location del film L'uomo dei sogni con Kevin Costner? Ebbene, anche la NBA starebbe pensando a partite ufficiali da giocare all'aperto, in playground famosi. Sky Sport offre qualche dettaglio.
Visto che ho toccato il baseball – sport per cui nutro una certa passione – ti segnalo il nuovo libro di Mario Salvini de La Gazzetta dello Sport, Il diamante è per sempre. Ancora non l'ho acquistato (puoi farlo qui), ma sono certo che merita sul serio.
Torniamo un attimo a Space Jam. New Legends: Gianluca Gazzoli racconta in un podcast a La Gazzetta dello Sport la sua esperienza da doppiatore nel film.
E LeBron James, di nuovo in vacanza in Italia, è stato prima a Napoli e poi in Toscana, dove ha degustato vini in un'azienda della Maremma. Alessandro Pagano di NSS Mag scrive della passione enologica del Re.
Sempre Pagano ci mostra il Black Hole, l'orologio di lusso che la svizzera Vanguart ha realizzato in collaborazione con James Harden.
Le finali delle FIBA 3x3 Women’s Series si sono giocate nel Palazzo del Parlamento di Bucarest. Così.
Giorgia Bernardini, sul numero di settembre di Zarina (newsletter di sport femminile), racconta molte cose di Liz Cambage, tra eccentricità e salute mentale, e di come funzionano certe situazioni nel basket donne.
La FIBA cerca (e forma) una voce femminile per i Mondiali donne 2002 in Australia. Per candidarsi c'è tempo fino al 10 ottobre.
Dove si può vedere il basket in questa stagione? La Giornata Tipo ha pubblicato la guida completa a tv e piattaforme.
Piccola riflessione sul basket a Roma: Eurobasket e Stella Azzurra, ad oggi le massime rappresentanti della capitale, giocheranno anche in questa stagione fuori città per assenza di impianti idonei per la serie A2 al di fuori del costosissimo palasport dell’Eur (l’ex PalaLottomatica). Situazione vecchia e imbarazzante, capisco il disappunto e le difficoltà dei due club. Mi chiedo solo, però, come non si riesca nemmeno a tirare su un’arena temporanea nel territorio comunale di Roma, magari una tensostruttura come a Capo d’Orlando o usando un padiglione fieristico come a Bologna, per citare altre squadre di A o A2. Mistero.
Infine guarda il videoclip di Come Ginobili, nuovo brano del rapper calabrese Kento.
Conclusioni
E anche il numero 9 di Galis volge al termine. Spero che tu sia rimasto soddisfatto dei contenuti e che vorrai continuare a ricevere la newsletter. E aiutarmi a diffonderla, se ti va: ne ho bisogno.
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That’s all folks! Ci vediamo il 31 ottobre, quando la nuova stagione NBA sarà già iniziata. Ciao!