Silicon Valley
#29 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi i Golden State Warriors, chi era Jim Brown e due speciali LBA Awards
Ciao, le grandi dinastie sportive nascono, prosperano e poi finiscono, ma quello che conta è il segno che lasciano.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il numero 29 di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
Nella scorsa uscita – se non hai avuto modo di leggerla, eccola – ho scritto dei libri di pallacanestro che per me sono stati più significativi, le mie impressioni sul film Air e come preparo la newsletter che ricevi ogni ultimo giorno del mese.
Oggi ti propongo alcune riflessioni sui Golden State Warriors, da poco eliminati dai playoff NBA, e su cosa hanno rappresentato in questi anni. Molti, anche se non tutti e anche se non è detto, ritengono infatti la sconfitta nella serie con i Los Angeles Lakers il canto del cigno della dinastia.
Nessuno metterà mai in discussione l'impatto di questa squadra dentro e fuori dal campo. Ma il mondo di oggi cambia in fretta: se i momenti di gloria dei secondi anni Dieci ben si contestualizzavano in quella fase storica, parimenti tale sorta di “declino” – che comunque è nella natura delle cose – ben si inserisce nel periodo attuale.
Come? Per scoprirlo, non resta che immergerci nella Dub Nation!
Reinventarsi
Non ho esattamente gusti da cinefilo, ma ci sono film che, nella loro semplicità ai limiti dell'ingenuità, sono utili per esprimere con chiarezza determinate idee. Uno di questi è Gli stagisti – titolo originale The Internship – lo conosci? È del 2013, giusto un paio d'anni prima che iniziasse la dinastia Warriors.
Una commedia gradevole, positiva e un po’ mattacchiona, un'iniezione di ottimismo che non fa mai male. Gli attori principali sono Owen Wilson e Vince Vaughn, però il vero protagonista è Google, perché il film è un clamoroso spot di “Big G”.
La trama in estrema sintesi, che tanto non ci interessa: due quarantenni rimasti disoccupati cercano di reinventarsi nel digitale, mondo a loro sconosciuto, facendosi prendere come stagisti a Google. Ritrovatisi in competizione con ragazzi che hanno la metà dei loro anni, insieme ad alcuni “nerd” snobbati da tutti si danno da fare per strappare un’assunzione. Comunque, se per te è nuovo, guardalo che è carino.
Ciò che qui ti voglio evidenziare è che Gli stagisti mostra bene uno dei motivi su cui Google ha costruito la sua fama di ambitissimo posto di lavoro: la sede di Mountain View e i suoi famosi benefit che offre ai dipendenti. Robe tipo gli scivoli al posto delle scale, la mensa infinita, aree relax, strutture sportive e tutta una serie di irresistibili cosette cool che ti fanno venire le pupille a forma di stellina.
Il quartier generale “figo” è uno degli aspetti più comuni e osannati delle aziende hi-tech proliferate nella zona appena a sud di San Francisco e Oakland, nota come Silicon Valley. Sono certo che anche tu, come molti, abbia sognato almeno una volta nella vita di essere assunto a Google come a Facebook o ad Apple.
La Silicon Valley, centro propulsore mondiale dell'innovazione, è più di un luogo. È, o almeno è stato, il simbolo di una mentalità aperta, anticonformista, orientata al futuro. E forse non è un caso che la squadra che più di tutte ha rivoluzionato il basket – o meglio, ha perfezionato e reso vincente lo stile di gioco già introdotto dai Phoenix Suns di Mike D'Antoni nel decennio precedente – sia fiorita proprio da quelle parti.
È stato infatti detto più volte che i “Dubs” sono l'estensione della Silicon Valley in NBA, e non solo per motivi geografici. Retorica scontata e superficiale? Non del tutto.
Joe Lacob, comproprietario dal 2010 insieme a Peter Guber, è un imprenditore che ha fatto fortuna come venture capitalist, cioè, per farla breve, i finanziatori di startup che “scommettono” pesante su nuove idee imprenditoriali nella speranza che diventino aziende di altissimo valore, i cosiddetti “unicorni”. E quindi non è così strano che abbia replicato nella sua franchigia NBA quell'humus culturale particolarmente predisposto all'innovazione e alla sperimentazione, oltre che anti-establishment, tipico della “Valle del Silicio”. Sul parquet e non solo.
Se l'intento del quartier generale di Google e di altri posti simili, dove si va “anche” per lavorare, è creare un ambiente positivo, stimolante, informale, in cui ognuno possa trarre piacere dal passare del tempo lì, senza vincoli di orario né gerarchie, e soprattutto essere più produttivo (che poi è la cosa che conta), anche agli Warriors ormai oltre dieci anni fa si è voluto promuovere qualcosa di simile.
Ad esempio introducendo nella sede operativa la soluzione dell'open space, per favorire condivisione di idee e collaborazione, in base a una mentalità imperniata sul pensare e agire di squadra, ascoltando i pareri di tutti, incoraggiando le interazioni tra dipendenti e reparti.
E così, mentre in campo Steph Curry, Klay Thompson e compagni, guidati da coach Steve Kerr, strabiliavano milioni di fan in tutto il mondo, con tanto di musica a palla durante gli allenamenti, negli uffici l'area commerciale e l’area comunicazione – diventate tra le migliori in assoluto in NBA – costruivano una perfetta macchina da soldi e da successi sportivi, mediatici ed economici.
Il basket ad altissimo ritmo di Golden State – con giocatori dislocati sul perimetro a “spaziare” il campo, ruoli sempre più sfumati e predilezione per le conclusioni al ferro o da tre punti, quelle che l'analisi statistica avanzata indica come le più efficienti – diventava così il sistema dominante. E, grazie anche a una sicurezza in se stessi rasentante l'arroganza, accomunava i Golden State Warriors alla cultura dinamica e spregiudicata della Silicon Valley.
Una rivoluzione con il sorriso, come spiega il nuovo e ottimo libro Steph Curry, gioia e rivoluzione di Dario Costa, che ho recensito qui e che ti consiglio assolutamente di leggere.
Abusando di vari comunissimi modi di dire, il che non implica che non siano veri, non è tutto oro quello che luccica e c'è sempre un rovescio della medaglia. E i cambiamenti degli ultimi anni, dentro e fuori gli Warriors, lo hanno accentuato.
C'è un altro libro essenziale per comprendere il mondo in cui operano, la NBA, nonché la portata di ciò che con la loro dinastia sono comunque riusciti a costruire. Il volume in questione, da me recensito qui, è I Golden State Warriors. La macchina della vittoria – titolo originale The Victory Machine – del giornalista Ethan Sherwood Strauss, un vero e proprio insider, tra l'altro cresciuto a Oakland, e lucido osservatore dell'evoluzione della lega.
L’opera va ben oltre le presentazioni “patinate”, per presentarci invece una realtà NBA estremamente competitiva e stressante, in cui i giocatori sono sottoposti a continue pressioni e distruttive forze centrifughe. Insomma, un business che spinge all’individualismo sfrenato e non fa sconti a nessuno, un mors tua vita mea nel quale rimanere al top è oltremisura logorante e le facce da bravi ragazzi di Steph e Klay sono più l'eccezione che la regola.
La storia di una spietata e insaziabile lotta per la sopravvivenza, ben rappresentata da un personaggio difficile come Kevin Durant che lì ha trascorso due stagioni molto particolari. In definitiva: è ben più arduo mantenere una dinastia che costruirla.
È il caso, quindi, di “forzare” un accostamento, questa volta in negativo, con la Silicon Valley. Che non sarebbe il mondo dei sogni, ma una realtà arrivista e materialistica, mossa da un progressismo di facciata, il cui glamour estremo ha finito per rendere la Bay Area una regione dal costo della vita tra i più alti del mondo e con le sperequazioni sociali più marcate. Lo scintillante Chase Center di San Francisco, dal 2019 casa degli Warriors al posto della storica Oakland Arena, più vecchia ma anche molto più “sanguigna”, è una chiara rappresentazione dell'universo di cui questa squadra è espressione.
La crisi economica e la pandemia hanno contribuito a dissolvere nella gente l'abbaglio collettivo dell'essere innovativi a tutti i costi, mostrando che dietro gli specchietti per le allodole come scivoli e sauna c'era, e tuttora c'è, un affare gigantesco nel quale non mancano contraddizioni, lati oscuri, sprechi inauditi, quando non vere e proprie truffe. E che per essere sostenibili bisogna sapersi ripensare e agire con raziocinio. Se hai visto su Apple TV la serie WeCrashed, basata sulla controversa vicenda di WeWork e del suo fondatore Adam Neumann, puoi avere un’idea cosa sto parlando. Se non l'hai vista, ti consiglio anche questa.
Spostandoci alla pallacanestro, allo stesso modo gli Warriors, esaurita la fase di “sbornia” della dinastia, di fronte al tempo che passa e al mutare dello status quo potrebbero ora essere costretti ad archiviare un intero capitolo o comunque a reinventarsi, in un basket che non è tenuto per forza di cose ad adottare il loro modello di gioco e di management, perché la bellezza del mondo è la diversità, non il “pensiero unico”, vale a dire il rischio più grave che corre il progressismo, in senso lato.
Le destabilizzazioni arrecate dal pur vincente biennio con Kevin Durant e le due successive stagioni negative senza playoff – 2019-20 e 2020-21, a cui è seguito il bel colpo di coda del titolo NBA 2022 – sono finite per corrispondere a un'epoca in cui si parla sempre più di crisi della Silicon Valley.
Dopo il boom durante il lockdown, i colossi del digitale hanno intrapreso una parabola discendente, dando l'impressione che il mondo hi-tech avesse un po' perso il senso della misura rispetto a ciò che è davvero importante per le persone. E così sono arrivati licenziamenti di massa, frenate dei venture capitalist, il fallimento della Silicon Valley Bank e, udite udite, persino il taglio dei suddetti benefit ai dipendenti di Google, come riferisce questo articolo de Il Post.
Oggi il declino, vero o presunto – al momento, ogni scenario futuro è difficile da ipotizzare – dei Golden State Warriors così come delle aziende della Silicon Valley sembra in qualche modo smascherare le illusioni della corsa esasperata all'innovazione e spinge fortemente a reinventarsi. Perché oggi le cose cambiano rapidamente e si diffida sempre più delle frasi fatte e degli spot pubblicitari.
E poi perché, nel basket come nella vita, i cicli sono cose normali, per quanto la mentalità di Joe Lacob, per sua stessa ammissione, è quella di restare ai vertici più a lungo possibile, non credendo alle fasi calanti e non accettando che nella vita possano esistere momenti di magra. Non per niente, come già accennato, viene dal venture capital più spavaldo, rappresenta quel clima lì: la Silicon Valley come perenne e indiscutibile polo nevralgico di ogni innovazione tecnologica e, per esteso, del pensiero.
Nel basket non sono tifoso di una squadra in particolare, in senso "calcistico", per intenderci. Però ammetto che gli Warriors sono tra quelle che più mi hanno emozionato e varie volte mi sono ritrovato a parteggiare per loro. Ma, a corollario del discorso che ti ho fatto oggi qui su Galis, ciò mi è stato d’aiuto per riscoprire un concetto basilare che a volte, nella pallacanestro di oggi, viene dimenticato.
”Strength in numbers”, la forza nei numeri, è stato il motto più diffuso dei “Dubs” di Steve Kerr. Un concetto, in puro stile Silicon Valley, che si ricollega all’intensiva applicazione delle statistiche avanzate e della tecnologia su cui - ricordi Moneyball, Moreyball e compagnia cantante? - si fonda il basket contemporaneo e di cui gli Warriors hanno fatto un proprio credo, traducendolo sul parquet.
Detto questo, sono però ultra convinto che non bisogna mai tralasciare un aspetto chiave: il basket è fatto prima di tutto da esseri umani e da emozioni, e nessuna analisi matematica né alcuna diavoleria tecnologica all’ultimo grido dovranno mai avere il sopravvento sullo sport che amiamo.
Il saluto a Jim Brown
Ti ricordi quando LeBron James giocava a Cleveland e la sua presenza alle NBA Finals era una certezza ogni anno?
Nel frastuono dell'allora Quicken Loans Arena, poco prima della palla a due, il Re era solito recarsi di fronte a un anziano e robusto signore afroamericano seduto in prima fila e rivolgergli un religioso inchino, che veniva spesso mostrato dalle telecamere al pubblico di tutto il mondo.
Quell'uomo si chiamava Jim Brown ed è scomparso pochi giorni fa, il 18 maggio, all’età di 87 anni. Se non ne hai mai sentito parlare, era un celebre ex giocatore di football americano dei Cleveland Browns, la venerata squadra locale che fu campione NFL per la quarta e ultima volta nel 1964 (le precedenti nel 1950, 1954 e 1955). I Browns, nonostante questi titoli, non possono però vantare partecipazioni al Super Bowl, per il semplice fatto che all’epoca non esisteva: è stato introdotto solo nel 1967.
I Browns, inoltre, sono stati immortalati in un bel film sportivo: Draft Day, con Kevin Costner, del 2014, di cui ti avevo parlato in Galis #11 ed è ambientato proprio nel quartier generale della squadra. Come ora ti dirò, il cinema ha avuto molto a che fare con la vita di Jim Brown.
James Nathaniel Brown era nato in Georgia nel 1936 e ha giocato come runningback a Cleveland dal 1957 al 1965, diventando una leggenda dei Browns. Attivista per i diritti civili degli afroamericani, è stato uno dei pochi atleti a esporsi, nei burrascosi anni Cinquanta e Sessanta, parlando in pubblico di questioni razziali. Fu l’organizzatore, il 4 giugno 1967, del famoso Cleveland Summit, raduno a sostegno del pugile Muhammad Ali in seguito al suo arresto per essersi rifiutato di rispondere alla chiamata alle armi per il Vietnam. In seguito Jim Brown si è dedicato a lungo all’educazione dei giovani a rischio nelle città americane.
In parallelo, ha portato avanti una discreta carriera da attore, interpretando ruoli in numerosi film, tra cui due di football - Quella sporca dozzina e Ogni maledetta domenica - ma anche uno di basket. Sai quale? Il mio preferito del genere, He got game di Spike Lee. Jim Brown veste i panni di Spivey, uno dei due insopportabili poliziotti che devono controllare il detenuto Denzel Washington alias Jake Shuttlesworth durante il permesso speciale in cui cerca di avvicinare suo figlio Jesus, cioè Ray Allen. Inoltre ha recitato in Mars Attacks! di Tim Burton, ma se vuoi conoscere la sua filmografia completa, c’è sempre Wikipedia.
LeBron James lo ha ricordato così sui social:
Oggi abbiamo perso un eroe. Spero che ogni atleta nero si prenda il tempo per istruirsi su questo incredibile uomo e su ciò che ha fatto per cambiare tutte le nostre vite. Se sei cresciuto nel nord-est dell'Ohio, Jim Brown era un dio. Da ragazzo che amava il football, ho sempre pensato che lui fosse il più grande Cleveland Brown ad aver mai giocato. Poi ho iniziato il mio personale viaggio come atleta professionista e ho capito che ciò che ha fatto dal punto di vista sociale era la sua vera grandezza. Quando parlo in pubblico, penso sempre a lui. Posso farlo perché Jim ha abbattuto quei muri per me.
Marketing e digitale
Ambiente, relazioni con la comunità di appartenenza, impegno sociale, coinvolgimento dei giovani: c'è tutto questo nelle motivazioni con cui la LBA ha scelto i club di Serie A finalisti del Marketing Award e del Digital Award, i riconoscimenti assegnati, nell'ambito degli LBA Awards 2023, alle società distintesi nel marketing (con un'occhio particolare al sociale e alla sostenibilità) e nella comunicazione sulle piattaforme di oggi.
Per il premio marketing sono in lizza Aquila Trento, Derthona Tortona e Olimpia Milano. Le prime due sono accomunate da un progetto di sostenibilità ambientale che prevede, tra le altre attività, la piantumazione di nuovi alberi. Trento, in particolare, si impegna a piantarne uno ogni tripla segnata, mentre a Tortona si punta anche alla riduzione di consumi energetici e cartacei. A Milano invece si porta avanti un progetto per sensibilizzare il pubblico sulle persone affette da autismo.
Il premio per il digitale, novità di quest'anno, sarà invece conteso da Dinamo Sassari, Reyer Venezia e Virtus Bologna. Il team sardo per gli eccellenti risultati su TikTok grazie a contenuti creativi e ironici, quello veneto per il lavoro che da anni conduce nelle scuole su come diventare social media manager di un club professionistico (il tutto all'interno del successo della Reyer School Cup) e la Virtus Bologna per il format Uncovered, serie di mini documentari che permettono ai tifosi di seguire il dietro le quinte della squadra, in stile NBA All-Access.
Le candidature sono votate dalla LBA in collaborazione con Infront e aziende partner e i vincitori saranno annunciati prima dell'inizio della prossima stagione. Un’ottima iniziativa per rafforzare il basket come stile di vita e potente strumento di relazione tra le persone.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Cominciamo dal mio blog. Ho pubblicato un pezzo che avevo in cantiere da tempo: 50 cose, fatti e personaggi del basket degli anni 2000. Eccolo.
Poi mi è piaciuta Swagger, la serie su Apple TV prodotta da Kevin Durant e liberamente ispirata alla sua vita. E l'ho recensita qui.
Su Rivista Undici ecco invece una bella recensione del film The First Slam Dunk firmata da Francesco Gerardi (no spoiler).
Se il film Air ha riprodotto così bene gli anni Ottanta, è merito anche della designer dei costumi Charlese Antoinette: l’ha intervistata su Andscape William E. Ketchum III. (in inglese)
E sempre da Air quelli di Marketing Espresso hanno tratto un po' di lezioni di marketing.
Non solo Jordan: Aaron Dodson e Nick DePaula narrano dettagliatamente, di nuovo su Andscape, come la Nike ha "accalappiato" il LeBron James teenager. L’articolo qui. (in inglese)
Come si sono conciate le star NBA al Met Gala di quest'anno: qui la gallery di Sky Sport.
Questo link mi era sfuggito il mese scorso: Giacomo Aricò di Vogue Italia passa in rassegna gli arditi look a bordo campo di Kim Mulkey, allenatrice delle Louisiana State Tigers campionesse NCAA.
Carmelo Anthony ha annunciato il ritiro: la sua carriera in 3 minuti in questo video ufficiale NBA.
Qui tutto quello che devi sapere su Victor Wembanyama raccontato da Davide Fumagalli di Eurosport.
Luca Spadacenta su La Giornata Tipo spiega perché Malcolm Brogdon è "The President".
Simone Altrocchi di Dunkest rievoca così Pete Maravich.
Deyscha Smith di SLAM ha intervistato JR Smith sul... golf! (in inglese)
Vita da campetto: Laura "Chicca" Macchi e a Tommaso “Tommy” Marino su Pick-Roll App raccontano il loro rapporto con il playground, qui e qui.
Nel mentre, dalle parti di Bergamo quelli di Street Art Ball Project continuano a fare playground artistici.
Il 4 giugno a Milano si corre la Ball Run: scopri come partecipare!
Sempre a Milano ha aperto la Biblioteca del Basket. Complimenti per l'iniziativa.
Nello scorso numero con Domenico Barbato avevamo parlato di One Team, il progetto di responsabilità sociale di EuroLeague. Qui, dal sito dell'Olimpia Milano, le illuminanti storie di tre ragazze.
L'intervista a Gianmarco Pozzecco di Benedetto Giardina per Olympics.com, il sito del CIO.
Tre nuovi libri usciti:
Dražen Petrović. Il primo uomo sulla Luna di Lorenzo Iervolino (66thand2nd)
Il cielo sopra Rucker Park di Davide Piasentini (Ultra)
Il volo di Nembo Kid di Antonello Riva con Edoardo Ceriani (Augh! Edizioni)
Per finire, gustati il bellissimo mini documentario di Bristol Studio sulla Madonna del Ponte di Porretta Terme (BO), patrona del basket.
Conclusioni
Eccoci alla fine di questo numero 29 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter. Mi raccomando, spargi la voce!
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È tutto, ci vediamo il 30 giugno. Ciao e buone NBA Finals!