Le ali ai piedi
#27 - Basket, cultura, lifestyle: qui trovi le scarpe più mitiche di sempre, i dieci anni di un tormentone e One Team
Ciao, qual è il tuo modello di Air Jordan preferito?
Io sono Francesco Mecucci e questo è il numero 27 di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
Nella scorsa uscita – se non l'hai letta, rimedia qui – ho scritto appunti sparsi sui videogame di pallacanestro, su Kevin Durant come imprenditore e sul decimo anniversario dello store Double Clutch.
Tra pochi giorni, il 6 aprile, esce Air, il film con Ben Affleck e Matt Damon che ci riporta al 1984, narrando quello che forse è il momento più importante nella storia del marketing sportivo: la nascita delle Jordan e l'accordo di sponsorizzazione tra Nike e il leggendario giocatore.
Per l'occasione, quindi, ti racconterò cosa rappresentano queste scarpe per il basket e in generale per la società. Leggeremo inoltre il parere di una persona che Michael l'ha anche fotografato dal vivo.
Pronto al decollo?
In volo con Air
Il nome Air, che letteralmente vuol dire “aria” ma si estende a tutto ciò che ha a che fare con il volo, viene in mente per la prima volta a David Falk, agente di Michael Jordan, durante le trattative che portano allo storico shoe deal. Ed è subito accolto da chi quelle trattative le sta conducendo: Rob Strasser, vice presidente Nike e Sonny Vaccaro – interpretato nel film da Matt Damon – figura chiave che, con la sua spregiudicatezza e abilità relazionale, praticamente rende possibile il tutto, sotto la supervisione del fondatore dell'azienda, Phil Knight – nel cui ruolo recita Affleck. Su Vaccaro tornerò più avanti.
Come nome, Air è un fit clamoroso: mette insieme la tecnologia di ammortizzazione delle scarpe con involucri in poliuretano riempiti di aria pressurizzata – brevettata da Nike qualche anno prima su input dell'ingegnere aeronautico Marion Frank Rudy – e la natura aerea del gioco di Michael, capace di librarsi in aria con una leggerezza mai vista prima. Non poteva non avere successo. L'idea del logo con la palla da basket tra due ali si deve invece al designer e direttore creativo Peter Moore, che ha l'intuizione, guarda caso, mentre si trova in aeroporto.
Tutta l'immagine di Jordan viene così costruita intorno al concetto di aria e volo: nel giro di pochi anni Air, nato a fini commerciali, diventa addirittura il soprannome di Jordan, tra l'altro cresciuto in North Carolina, lo stato dove nel 1903 i fratelli Wright fecero alzare il primo velivolo a motore.
Sai chi non c'è nel film sull'origine del brand di Michael Jordan? Michael Jordan! C'è la sua famiglia – Viola Davis, attrice voluta da lui, interpreta l’influente madre Deloris – e ci sono i pezzi grossi di una Nike che tanto grossa all'epoca non era, soprattutto nel basket. Ma il personaggio di MJ manca.
Non saprei dirti se sia una scelta legata ai suoi ultra-costosi e ultra-protetti diritti d'immagine, però mi piace l'idea di un Jordan entità “suprema” che non compare mai, ma che di fatto aleggia e incombe su ogni momento, capace di esercitare influenza e carisma anche quando non è presente.
Ben Affleck, che del film è anche il regista e ha un rapporto personale di amicizia con Jordan, descrive questo aspetto come cruciale, in quanto dà significato a tutta la storia: Michael non si vede ma c'è, il suo arrivo è imminente e con lui il basket, l'industria dello sport, il modo in cui gli atleti sono trattati, si avviano a cambiare per sempre. Partendo dal contratto per una scarpa.
Cosa ha reso le Jordan iconiche? Non tanto il prodotto in sé, come in ogni grande storia di marketing, quanto la storia che raccontano e i valori che ispirano a chi le indossa. Michael è un simbolo globale, protagonista di una rivoluzione nel business sportivo, nella moda e nel lifestyle. Il logo del jumpman, che compare dal 1987, è una sagoma essenziale che sprigiona sentimenti come energia, potenza e determinazione nel raggiungere il traguardo, molto più del logo NBA con la compassata silhouette di Jerry West. Il messaggio è fin troppo chiaro: con le Jordan tutti possono volare e sentirsi un po' like Mike.
La linea esiste da quasi quarant'anni ed è arrivata al numero 37. Certamente, le Jordan sono tra le principali sneaker che hanno contribuito a rendere di uso quotidiano la scarpa da ginnastica. Una storia straordinaria, a partire dal primo modello messo al bando dalla NBA, secondo il cui regolamento le scarpe da gioco dovevano essere almeno al 51% bianche, e non rosse e nere – i colori dei Chicago Bulls – come quelle lanciate da Nike.
E a quanto pare il primo modello “bannato” non è stata la Air Jordan I – arrivata ad aprile del 1985 – ma una Air Ship, che si può considerare il prototipo di tutte le Jordan e con cui Michael scese sul parquet nel primi mesi della stagione da matricola, la 1984-85. Il divieto di utilizzo in campo da parte della lega offre all'azienda dell'Oregon, che basa la sua intera mission sul sovvertimento delle regole, un'imperdibile occasione di marketing per venderle al di fuori.
Tra le pietre miliari delle Jordan, trovi senza dubbio le III con il debutto del jumpman, progettate come molte altre dal brillante designer Tinker Hatfield, oppure le versioni della Dynasty Collection, dal 1991 al 1998, come le XI presenti nel film Space Jam o le XIII, con le riconoscibili “dita della pantera”, indossate da Denzel Washington in He got game. E poi tutti i modelli successivi al ritiro di MJ, fino ai più recenti di un brand che, sempre nella galassia Nike ma autonomo dal 1997, annovera oggi tra i suoi testimonial Luka Doncic, Jayson Tatum, Russell Westbrook, Zion Williamson.
Un'evoluzione che nel corso degli anni ha visto, e vede tuttora, innumerevoli riproposizioni e novità tra colorway e versioni nostalgiche, passando attraverso materiali e soluzioni tecnologiche che hanno attinto spunti da settori quali aerospazio e automobilismo. La storia delle Jordan è la storia di come il basket, dagli anni Ottanta a oggi, sia diventato lo sport che più di tutti esprime il legame con il lifestyle.
Lo sa bene Francesca Di Fazio, fotografa appassionata ed esperta di sneaker che da alcuni anni collabora con Nike e Jordan Brand (questo è il suo Instagram).
Le ho chiesto un parere sull'impatto culturale delle Jordan: «Hanno cambiato una generazione, soprattutto quella cresciuta negli anni Novanta, perché con esse la scarpa da basket è uscita dal parquet ed è entrata nella cultura pop: le Jordan sono l'emblema di tutto questo. Basti pensare a quanti artisti musicali le indossano, ma anche a serie famosissime come ‘Willy, il principe di Bel-Air’ dove Will Smith indossa le III e le V. La loro importanza sta qui: aver avuto un impatto nel mondo pop e nella street culture, mentre le scarpe di oggi, per quanto ve ne siano di altissimo valore, come le LeBron, le KD, le Giannis, rimangono soprattutto tecniche. Magari tra vent'anni saranno diventate anch’esse culturali, ma con le Jordan il passaggio dal campo alla vita quotidiana è successo più o meno istantaneamente».
Francesca, che indica come sue preferite le I Banned e le III Black Cement, ha avuto occasione, alcuni anni fa, di fotografare Michael Jordan in occasione di un evento a Parigi. «Ho lavorato con varie star NBA – ricorda – tuttavia quando ti trovi davanti un personaggio così leggendario, sicuramente avverti il suo carisma, ma ancor di più è come se ti rendessi conto che esiste davvero, dopo averlo tanto idealizzato. Oggi gli atleti hanno una visibilità diversa rispetto alla sua epoca, sono molto più umanizzati, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione li vediamo ogni giorno nella loro quotidianità. LeBron o Giannis li abbiamo sotto gli occhi in ogni momento, di MJ vedevamo al massimo qualche partita o leggevamo qualcosa sui giornali, tuttora non è sovraesposto, anzi è molto riservato. Così quando lo vedi dal vivo, non te lo sai spiegare, quasi non ci credi. Il clic emotivo di trovarsi di fronte a Jordan scatta nel momento in cui realizzi che è davvero una leggenda vivente».
Da sei-sette anni Francesca è riuscita a trasformare le sue passioni – basket e sneaker – in una professione, cavalcando il grande hype per le Jordan tra 2018 e 2019: «Adesso tutti le portano, prima non era così scontato. Lo stesso film ‘Air’, forse, lo avrei fatto uscire qualche anno fa. Con la fotografia ho iniziato tardi, a trentasette anni, prima avevo un altro lavoro e soltanto un profilo Instagram personale dove condividevo i miei scatti: sono stati decisivi i vari contatti costruiti nell’ambiente, tra cui alcuni magazine, già da prima che l’hype salisse», conclude Francesca, che ha preso parte, insieme a un team di creativi, ad alcuni importanti eventi del brand, dalla campagna di lancio delle Jordan XI Concord – «il progetto a cui mi sento più legata» – all'inaugurazione dello store Jordan World of Flight di Milano, un evento che ha esaltato la fusione tra la cultura del basket e quella metropolitana, di cui avevo accennato qui.
Michael Jordan ha da poco compiuto 60 anni e si è ritirato dal basket 20 anni fa. Eppure le scarpe e l'abbigliamento con il suo marchio sono sempre sulla cresta dell'onda. Quello storico accordo del 1984 ha aperto la strada a opportunità fino ad allora neppure lontanamente pensabili per gli atleti: ciò che in seguito sono diventati Kobe Bryant e LeBron James, cresciuti nel mito di MJ, ne è la più evidente testimonianza. Se oggi il business delle sneaker è prioritario per i giocatori NBA, contesi dai brand fin da ragazzini e più leali alle aziende che alla squadra, lo si deve alle Air Jordan.
Per cui, prima di chiudere, trovo giusto dedicare uno spazio al personaggio determinante di questa vicenda: Sonny Vaccaro, che come accennato è interpretato in Air da Matt Damon. Il suo contributo è fondamentale nell'evoluzione dello sport business come lo intendiamo oggi, in cui un atleta è di fatto un'azienda. La figura di Vaccaro, in apparenza, è quella dell'italo-americano tracagnotto, di strada, "traffichino", ma che grazie al suo acume intuisce scenari che presto diventeranno dominanti.
Assunto da Nike nel 1977, grazie alle sue conoscenze e relazioni nel basket liceale e universitario rende possibile la penetrazione dei suoi prodotti nel chiusissimo mondo della NCAA. E poi prevede che Jordan sarebbe diventato un fenomeno planetario, tanto da convincere Phil Knight e i suoi manager ad andare all-in sul numero 23, offrendogli, novità assoluta, una percentuale su ogni paio di scarpe venduto. Una scommessa enorme – la NBA, gli afroamericani e la stessa Nike non godevano certo dello status di oggi – che, è proprio il caso di dirlo, prenderà il volo oltre ogni aspettativa.
Oggi Vaccaro ha 84 anni: se vuoi conoscere qualcosa di più su di lui, ti consiglio di leggere questa intervista che realizzò Manuel Riccio per l’Ultimo Uomo alcuni anni fa.
Intorno al 1990, Sonny Vaccaro arriverà ai ferri corti con Knight e sarà licenziato da Nike. Se ne andranno anche Rob Strasser e Peter Moore. Tutti e tre passeranno agli acerrimi rivali di Adidas, dando inizio alla "guerra" delle scarpe degli anni Novanta. Ma questa è un'altra storia.
I 10 anni di un tormentone
Inquadratura fissa, scena statica. I giocatori di una squadra sono intenti a fare stretching, allacciarsi le scarpe, ascoltare i dettami del coach. A un certo punto uno di loro, con una maschera o un copricapo strano, comincia a passare in mezzo ai compagni dimenandosi a ritmo di musica, con in sottofondo un suono martellante e l'inquietante grido “con los terroristas!”. Nessuno se lo fila di pezzo, ma di colpo l'immagine stacca e riprende con tutti i presenti che ballano in modo spasmodico, ognuno indossando un travestimento diverso e agitando oggetti improbabili, mentre la musica prosegue senza interruzioni. Durata: trenta secondi circa.
Hai già capito di cosa sto parlando, vero? Dieci anni fa, nei primi mesi del 2013, su YouTube e sui social impazzava l'Harlem Shake, dal titolo di un brano del DJ e producer americano Baauer. Un tormentone assoluto, così come il balletto di Gangnam Style l'anno prima e l'Ice Bucket Challenge l'anno dopo. Sono gli anni del boom dei social media (non ancora Instagram, appena nato, ma di sicuro Facebook e Twitter) e degli smartphone che dilagano su larghissima scala. E quindi la possibilità, per tutti, di creare video in pochi istanti e condividerli. Gruppi di ogni tipo si cimentano nell'Harlem Shake, non solo online ma anche in contesti dal vivo: durante concerti, spettacoli, eventi pubblici, a un certo punto scatta il siparietto a sorpresa.
La semplicità del “copione” e la totale libertà di come mascherarsi decreta il successo globale dell'Harlem Shake, che trova terreno molto fertile anche nel basket. Dalla NBA alle nostre minors, tantissime squadre realizzano il proprio video. Uno dei meglio riusciti è sicuramente quello dei Miami Heat, allora campioni NBA con LeBron James, che puoi vedere qui di seguito, mentre a questo link trovi una ricca “compilation” di Harlem Shake cestistici!
#WeAreAllOneTeam
L'amico Domenico Barbato ci racconta la sua esperienza all'Olimpia Milano con One Team, il programma di responsabilità sociale di EuroLeague che utilizza il basket come strumento di cambiamento e impatto positivo nelle comunità locali, rivolgendosi alle nuove generazioni.
L'Olimpia ha abbracciato il progetto, arrivato al quinto anno, insieme a Fondazione Laureus, a beneficio di circa 130 alunni della scuola media dell’Istituto Comprensivo Arcadia, nel quartiere Gratosoglio, periferia sud. Domenico, con Alessandro Trombin, Marilisa Zanini e la psicologa di Laureus Alessandra Stella, è uno dei coach che hanno gestito le due fasi.
Da novembre a gennaio si sono svolti tre diversi incontri formativi con le classi prime dell’Istituto. Nelle lezioni mattutine ciascuna classe ha affrontato lo studio di basilari life skills: squadra, rispetto, sostenibilità. «L’Olimpia ha stimolato gli allievi sull’importanza della raccolta differenziata – spiega Domenico – e su come il basket possa davvero aiutarci a rendere il mondo più pulito. Gli esercizi cestistici connessi a buone pratiche ambientali hanno impressionato i ragazzi, tornati a casa maggiormente consapevoli del corretto smaltimento dei rifiuti. A conclusione della prima fase, le sette classi hanno potuto fare una gara di tiro sul parquet del Forum, assistendo inoltre a un allenamento della prima squadra di coach Messina».
Nella seconda e innovativa fase, coach e insegnanti hanno selezionato 22 di loro per creare una vera e propria squadra One Team. Prosegue Domenico: «I ragazzi scelti stanno partecipando a nove allenamenti collettivi, divisi in tre ulteriori fasi, volti a scoprire i fondamentali della pallacanestro. A ciascun obiettivo tecnico è associato un obiettivo One Team. Ad esempio, i giocatori hanno riflettuto sull’importanza dell’identità di gruppo, lavorando sulla skill relazioni efficaci tramite il passaggio. Spazio poi alla comunicazione, affrontata attraverso esercizi legati al palleggio e a schemi finalizzati ad allenare la skill empatia. Ultimo tema la gestione emotiva, associata al fondamentale del tiro e a come affrontare ansia e frustrazione».
Agli incontri hanno partecipato ospiti speciali, tra cui Gigi Datome e Bruno Cerella, ma anche di altri sport come la campionessa italiana di softball Alice Ronchetti. I 22 membri della squadra sono stati special guest alla partita Olimpia-Olympiacos: allenamento speciale con Peppe Poeta, visita alle strutture del club, riscaldamento e presentazione delle squadre in prima fila, momento selfie con Kyle Hines (ambassador One Team) e giro di campo durante il primo time out. Gli allenamenti dureranno fino a metà aprile, quando potrebbero già svolgersi le prime partite.
«Olimpia Milano – conclude – ha inaugurato questa nuova fase con l’obiettivo di far vivere ai ragazzi un’esperienza sportiva gratuita di grande valore educativo. La vita a Gratosoglio non è certo delle più semplici ed è solo attraverso l’unione del gruppo che si possono vincere le sfide più difficili. Ecco perché al termine di ogni allenamento risuona sempre l’urlo collettivo “One Team!'».
Grazie Domenico per la testimonianza e per la passione con cui vivi il basket ogni giorno.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Siamo alla vigilia della Final Four NCAA. Cesare Milanti ha intervistato su Overtime Davide Moretti per farsi raccontare l'atmosfera della March Madness, lui che l'ha vissuta da protagonista: l’articolo qui.
Sempre Cesare Milanti ha ospitato sulla sua newsletter Kill Bill la testimonianza di Yann Casseville, giornalista francese che ha seguito di persona la BAL (Basketball Africa League).
A proposito di Africa, il Sudan del Sud si è qualificato ai Mondiali 2023: una storia incredibile. Se hai seguito bene Galis, sai già che John Grisham ha parlato di questo paese nel romanzo di basket Il sogno di Sooley: lo avevo recensito qui.
E queste sono le arene in cui si giocherà la competizione, tra Filippine, Giappone e Indonesia.
A Manila, poi, sul playground di Tenement Punta Santa Ana ora ci sono LeBron e MJ.
Ilaria Solaini di Avvenire racconta la storia dell'afgana Nilofar Bayat, attivista e giocatrice di basket disabile a causa di un razzo dei talebani. Oggi vive in Spagna.
Maria Barone racconta sul mio blog le emozioni del ritiro della maglia di Pau Gasol da parte dei Lakers. Con il ricordo di Kobe, of course. Leggi la storia qui.
Il dominio di Shaquille O'Neal su La Giornata Tipo: testo e musica di Daniele Vecchi.
Su l'Ultimo Uomo un estratto da Steph Curry, gioia e rivoluzione, il libro di Dario Costa uscito il 10 marzo per 66thand2nd.
È uscito anche il primo romanzo di Giorgia Bernardini, autrice della newsletter di sport femminile Zarina ed ex cestista: si intitola Area piccola. La scheda qui.
In arrivo il 26 aprile Il gigante del campetto, libro a fumetti per ragazze e ragazzi scritto da Gigi Datome: puoi preordinarlo qui.
Nick DePaula di Andscape parla della Nike Sabrina 1, la prima scarpa personalizzata di Sabrina Ionescu, star WNBA delle New York Liberty. (in inglese)
Qui il sesto episodio di LBF Road Trip, viaggio alla scoperta dei club di basket femminile italiano: si parla della Reyer Venezia.
Il 4 aprile su Prime Video arriva Redefined: J.R. Smith, documentario in quattro episodi sull'ex giocatore NBA reinventatosi golfista. Produttore: LeBron James! Ecco il comunicato di lancio. (in inglese)
Questo invece è il progetto della nuova arena della Virtus Bologna.
Un paio di Galis fa avevo parlato di basket in Giappone. Jacob Forchheimer racconta su GQ la crescita di Yuta Watanabe dei Brooklyn Nets. (in inglese)
La tradizione dei giocatori tedeschi ai Dallas Mavericks ripercorsa da Riccardo Pratesi su La Gazzetta dello Sport.
Ti ricordi il successo di AND1 Mixtape Tour, anni Novanta/Duemila, tra musica, basket e cultura hip hop? C'è uno splendido documentario su Netflix che ho recensito qui.
Baruz ci svela tutta la bellezza di Rucker Park.
È partita Where I'm From, la web serie legata al videogame NBA All-World by Niantic. Conduttore e coproduttore Set Free Richardson, tra i maggiori creativi ed esperti di basketball culture. Primo episodio con Jalen Green degli Houston Rockets.
In bocca al lupo a tutti i protagonisti della scena playground di Roma, e a Pick-Roll, per la nuova stagione alle porte! Gli eventi estivi sono stati presentati qualche giorno fa in un bell’evento al Feria Lanificio: guarda qui il reel.
Grazie a Klaus Krug per avermi invitato al programma Pick & Roll su Well Tv, emittente di Brescia visibile anche sul canale 810 di Sky. Ho potuto far conoscere Galis e Never Ending Season a un pubblico più ampio, oltre che parlare un po' di basket ovviamente. Se vuoi vedermi, guarda il video qui: il mio intervento va dal minuto 33'12" al 51'06".
Infine, sempre molte grazie a Spicchi d'Arancia, la newsletter di basket diretta da Guido Guida e con decine di migliaia di iscritti, che linka Galis a ogni uscita! Se vuoi sostenerla, puoi farlo qui.
Conclusioni
Eccoci alla fine di questo numero 27 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter. Mi raccomando, spargi la voce, che qui è tutto amatoriale!
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È tutto, ci vediamo il 30 aprile. Ciao e buona visione di Air, Final Four NCAA e Pasqua!