Playground d'arte
#4 - Basket, cultura, lifestyle: qui trovi street art nei campetti, riflessioni sul tempo che passa e nozioni di fisica.
Ciao, se stai leggendo queste righe, vuol dire che ami la pallacanestro e che oggi è l'ultimo giorno del mese.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il quarto numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season. Qui ti parlo di basket, cultura e lifestyle.
Grazie e benvenuto, se sei un nuovo iscritto. Ben ritrovato, invece, se c'eri già. Mi fa estremo piacere, in entrambi i casi, averti nel mio pubblico. Spero che mi darai una mano a far conoscere la newsletter, che è nata da poco. Credo nell'informazione di qualità e conto molto sul tuo aiuto.
Nella scorsa uscita (nel caso ti fosse sfuggita, recuperala qui) ho scritto della gentrificazione e del perché ha a che fare anche con i Brooklyn Nets; poi, di quanto manchi Roma al grande basket; infine, ho raccontato la newsletter “analogica” che lo scout Tom Konchalski ha battuto a macchina per quasi quarant'anni.
Prima di passare ai temi di questo numero, soprattutto se sei nuovo, ti ricordo in breve in cosa consiste il mio progetto.
Sia in Never Ending Season sia in Galis – la linea editoriale è la stessa, seppur nelle differenti finalità dei due strumenti – porto il basket fuori dal campo, esplorando e raccontando l'influenza e le connessioni che ha nella nostra vita quotidiana, nella cultura pop e nella società contemporanea. E dopo vari anni di blog, riconosco che tali legami sono davvero tanti. Il basket è proprio una “stagione che non finisce mai”: se ne sei un fedele seguace, ti sarai reso conto che ti accompagna in ogni momento, ovunque.
Sei pronto? Allora, iniziamo con le storie di Galis #4!
Basket e street art
Tra le connessioni di cui ti ho accennato un attimo fa, ce n'è una sempre più importante: quella tra il basket e la street art.
È un rapporto che, negli ultimi anni, si è consolidato e ampliato. In particolare, si sono moltiplicati i playground trasformati in vere e proprie opere d'arte a cielo aperto. Celebrazioni multicolore della urban culture e dello sport che meglio esprime questo stile di vita: il basket di strada, o streetball. Da anonimo rettangolo di asfalto o cemento, a ogni latitudine, la superficie dei campetti è diventata la base per “murales orizzontali” caratterizzati da concept e stili assai variegati. Una cosa interessante è che oggi, grazie ai droni, ci è possibile ammirarli e fotografarli dall'alto, nella loro interezza, scatenando like, commenti e condivisioni sui social.
La valenza della street art applicata ai playground è almeno duplice. Oltre all'aspetto artistico e creativo, che come detto include una grande varietà di soggetti e motivi, è forte anche l'implicazione sociale, andando a toccare un ambito complesso e per certi versi delicato come quello della riqualificazione urbana.
La street art, infatti, è ormai diventata un fenomeno globale, comunemente accettato e ammirato. Pur mantenendo un'indole ribelle di fondo, oggi è approvata o persino richiesta da pubbliche amministrazioni e aziende per implementare progetti di recupero di periferie, aree urbane, edifici in degrado. Riqualificare un playground e farlo dipingere da un valido street artist significa restituire al quartiere e alla comunità un luogo di incontro e socializzazione laddove prima c'erano abbandono e insicurezza, coniugando sport, arte, decoro, funzione educativa.
Anche la creatività espressa sui playground è doppia e si compenetra: così come gli artisti riempiono il campo di figure, forme e colori, allo stesso modo i baller vi tracciano arabeschi e linee invisibili usando come pennello o bomboletta i propri corpi e la palla in movimento.
In Italia, negli Stati Uniti e in tanti altri paesi sono nati gruppi e associazioni di appassionati con lo scopo di far rinascere i campi da basket all'aperto, coinvolgendo gli street artist e sviluppando collaborazioni con istituzioni, realtà solidali, sponsor. Oltreoceano, ad esempio, la prima che mi viene in mente è Project Backboard. Oppure, tutti quei basketball courts – se non lo sai, playground è un termine che usiamo dalle nostre parti, mentre in America indica le aree giochi per bambini: quindi là si dice court – realizzati e abbelliti con il sostegno delle fondazioni benefiche di vari giocatori NBA. Operazioni che spesso portano con sé anche i grandi brand di abbigliamento sportivo di cui le varie star sono testimonial.
Sempre più marchi, infatti, fanno leva sulla potenza della strada, dei suoi linguaggi, spazi e riti pagani per coinvolgere un’ampia fascia di popolazione. Basti pensare a programmi internazionali dedicati allo streetball, come il Red Bull Half Court, che di recente ha sponsorizzato a Roma il rifacimento del playground di San Lorenzo con la crew San Lorenzo Family. O ad altri collettivi che nascono spontanei e in stretto rapporto con le comunità locali. Penso a Hard in the Paint a Milano, che ho intervistato tempo fa, a StreetArtBall a Bergamo, che ho scoperto da poco, al progetto Cantieri San Paolo a Roma, a ogni iniziativa finalizzata a rimettere in sesto un campetto, ovunque si trovi, e a creare valore sociale.
Quando c'è di mezzo la pallacanestro, però, sono convinto che non si tratti solo di arte e decoro urbano. C'è, inevitabilmente, di più. Rendere migliore un playground, per chi ama il basket, è una forma di tributo al nostro sport e ai personaggi che lo hanno onorato, interpretato e rispettato in maniera tale da diventare fonti di ispirazione per milioni di giovani e meno giovani in tutto il mondo. Una sorta di restituzione al basket attraverso il linguaggio universale dell'arte, da parte di chi, per dare un senso alla propria vita, si lascia guidare dall'immenso patrimonio di eroi, storie e insegnamenti che la palla a spicchi racchiude in sé.
La straordinaria proliferazione di murales e campi dedicati a Kobe Bryant, fenomeno globale scatenato da una tragedia tuttora difficile da elaborare, ne è un chiaro esempio, sicuramente il più estremo. Ne avevo parlato nel primo numero di Galis, se vuoi rileggilo qui.
Ma, discorso Kobe a parte, ti invito a pensare un attimo a quanta influenza le stelle della NBA siano in grado di esercitare sulla gente in ogni dove.
Pensa quanto possa significare, per qualsiasi figlio di immigrati, l'enorme Giannis Antetokounmpo che Same84 ha dipinto ad Atene sul playground di Sepolia, dove The Greek Freak era solito giocare da ragazzino. Immagina quanto voglia dire, per un paese fuori mano ma appassionatissimo di basket come le Filippine, il LeBron James che giganteggia a Taguig su due campi affiancati, disegnati come se fossero lo schermo di uno smartphone 28x15 metri, tanto per sottolineare ancora una volta le pazzesche possibilità della comunicazione di oggi. Ancora, immagina quanta fantasia possano accendere nei ragazzi di New York i vivacissimi colori dei courts pitturati da Madsteez. O l'importanza, per una ragazza che sogna di fare strada, del trovarsi di fronte al grande murale che la città di San Antonio ha dedicato a Becky Hammon.
C'è quindi una relazione sempre più stretta tra basket e street art, che si concretizza in playground diventati opere d'arte, sia in qualità di tributo alla pallacanestro come stile di vita sia espressione di progetti di risanamento urbano.
La riflessione che voglio fare con te è questa: c'è il rischio che tale pratica, come tante altre cose, si inflazioni o, peggio, si omologhi a tal punto che un campetto non è più tale se non viene dipinto da qualche artista cool seguendo il mainstream?
Secondo me no, o meglio: non del tutto. Intanto, la street art è una realtà vasta e multiforme, il che rende più difficile una sua omologazione. Inoltre, per quanto diffusa e osannata, conserva sempre una base anti-establishment, e anche questo aiuta. In ogni caso, devi sempre partire da un assunto molto semplice: i tempi cambiano. E con essi la società, le abitudini, il modo di vivere. Non puoi farci nulla.
Infatti, sia la street art che il basket di strada, entrambi espressione della urban culture, hanno conosciuto un'evoluzione parallela e allo stesso tempo complementare. La prima, da pratica illegale con profonde radici nella protesta sociale, è diventata arte “ufficiale”, meta turistica, capitolo nei libri di scuola, con gli artisti direttamente coinvolti da chi fino a poco tempo prima li considerava vandali; il secondo, lo streetball, da rude attività nei quartieri difficili delle metropoli ha man mano sviluppato una osmosi con lo show business. Tornei e circuiti sponsorizzati da noti marchi hanno portato il basket di strada all'attenzione del pubblico globale.
Certo, probabilmente oggi un amante dello streetball “duro e puro”, quello del no blood no foul, di chi dava l'anima per crearsi una reputazione e uscire dal ghetto, di fronte a un campo disegnato con i Looney Tunes o con forme geometriche dai colori pastello forse avrebbe qualcosa da ridire. È vero che l'abito non fa il monaco, e che uno può giocare grit-and-grind anche se il fondo è rosa shocking, ma comunque a un eventuale baller viscerale e old style potrebbe venire il dubbio sul fatto che su certi playground si giochi ancora un basket sanguigno. Tuttavia penso che una buona parte dei campetti sia ancora spartana e provi a mantenere quelle caratteristiche che, tanto per fare un esempio, osservi nel film Chi non salta bianco è.
L'evoluzione, però, è in atto. Nel basket di strada come nell'arte urbana. E difficilmente si fermerà. Se proprio devo trovare qualcosa che non mi torna, in alcuni di questi playground dipinti, riguarda la giocabilità del campo. Facci caso: ce ne sono alcuni in cui l'opera d'arte, mimetizzando le linee regolamentari, ha oscurato la funzione propria del luogo, cioè giocare a basket. Inoltre, non va dimenticato che tutta la street art rimane un'arte abbastanza effimera. Le pitture, se non restaurate a intervalli regolari, rischiano di durare solo pochi anni. A maggior ragione su una superficie costantemente e orizzontalmente esposta alle suole dei suoi frequentatori, al sole e alle intemperie.
Detto questo, sono convinto che la street art dedicata alla pallacanestro sia un fenomeno positivo. Soprattutto in un paese come l'Italia, in cui spesso e volentieri i campetti pubblici sono oggetto di vandalismo. E persino visti dagli abitanti di questo o quel quartiere come una minaccia alla loro quiete piccolo-borghese. Quindi, sono contento per qualsiasi progetto di riqualificazione di tal genere, sia per amore del basket sia per il valore urbanistico, artistico e sociale di tali interventi.
In fondo, la street art oggi non è più soltanto il graffiti writing metropolitano, cioè quello che sicuramente avrai notato sui vagoni dei treni, sotto i cavalcavia o, se per caso sei un umarell, sulla recinzione di un cantiere. Il progenitore della street art, mentre oggi ne è una sorta di corrente underground. Una pratica che in Italia ha avuto un boom negli anni '90, mentre negli USA aveva già iniziato a proliferare dai fermenti sociali e politici di fine anni '60, evolvendosi dalle semplici tag con cui le gang segnavano il territorio e dalla sua natura originaria strettamente lettering, a ricerca figurativa sempre più complessa. Oggi il graffitismo è stato fagocitato da quella street art che ha contribuito a generare, mutata da attività di guerrilla a espressione creativa accettata ad alti livelli, grazie anche a mostri sacri quali Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. Dalle strade di New York, la street art è arrivata nelle gallerie, nei musei e nei luoghi più importanti delle città di tutto il mondo, rendendo universale quella cultura di radici afro che ha dato vita anche alla musica rap e alla break dance. E, ovviamente, allo streetball.
The 90s are the new 80s
Esco allo scoperto: sono del 1982. Sono vecchio? Dillo tu. Da parte mia, mi ritengo fortunato di essere nato quando sono nato. Sai perché? Perché ho avuto la possibilità di vedere i “due mondi”. Quello prima e quello dopo l'avvento di internet e del digitale. Parliamoci chiaro: la rivoluzione avvenuta tra gli anni '90 e i 2000 è qualcosa di assimilabile all'invenzione della scrittura, o della stampa. Non si scappa. Ed è una fortuna aver potuto assistere a un simile cambiamento epocale.
Da un lato, quando robe come gettoni del telefono, walkman, musicassette, rullini fotografici erano arrivati ormai agli sgoccioli, ero già abbastanza grande per averne nitida memoria, e di questo sono grato; dall'altro, vent'anni fa ero un teenager, perciò ho avuto modo di familiarizzare presto con pc e cellulari, nonché con la Rete. Insomma io e i miei coetanei, quindi chi è tra i trenta e i quaranta per capirci, siamo cresciuti in un mondo, neanche troppo remoto, in cui una buona parte dei nostri gesti quotidiani veniva fatta in un altro modo. E poi abbiamo dovuto aprirci a sistemi completamente diversi, capovolgenti, a tratti disorientanti. Un bell'allenamento mentale, per noi nati negli anni '80, non trovi? Ma non è di questo che voglio parlarti qui: magari un'altra volta o in un altro contesto.
Ho semplicemente chiamato in causa il mio anno di nascita perché talvolta mi capita di pensare a un aspetto a prima vista scontato, ma meritevole di approfondimento. Tra gli anni '80 e '90, quando ero piccolo e questi due decenni non erano ancora oggetto di culto, sentivo spesso i miei genitori parlare con sorridente nostalgia degli anni '60 e '70, in cui erano ragazzi, che consideravano “mitici”. Ed erano trascorsi, all'epoca, circa venti-trent'anni. Allo stesso modo, è assolutamente naturale che oggi, negli anni '10 e '20, chi ha la mia età guardi agli anni '80 e '90 con lo stesso occhio con cui i nostri genitori guardavano agli anni '60 e '70.
Sì, sto dicendo cose assolutamente ovvie, ma che forse aiutano a capire meglio la grande attrazione che quei due decenni – gli Eighties e i Nineties – continuano ad esercitare su chi ci è cresciuto, complice oltretutto una serie di fenomeni di costume e cultura pop che hanno costruito un fascino probabilmente neppure avvicinabile dai decenni successivi. Perciò, è naturale che oggi a noi della fascia 30/40 vengano gli occhi lucidi ripensando a film come Ritorno al futuro, a Roberto Baggio che sbaglia il rigore di Pasadena, alle cabine telefoniche o, che so, a Michael Jordan.
La certezza assoluta della vita, forse l'unica, è che il tempo passa e che in queste figure e momenti iconici possiamo riconoscere tutti i segni del suo scorrere.
In virtù di ciò, quel che ti voglio dire – oh, sia chiaro, è solo una mia teoria – è che negli ultimi tempi mi sembra che lo stesso culto degli anni '80 stia già diventando prerogativa degli over 40 (io, poi, nel 1990 avevo appena otto anni quindi non è che abbia tutti questi ricordi) mentre, con tutto il rispetto per i sempre e comunque fantastici Eighties, oggi presso la mia generazione sono ormai i Nineties ad essere davvero cult.
A dar manforte alla mia teoria, è arrivato senza dubbio il successo di The Last Dance. Ho visto e rivisto la serie con grande trasporto, anche perché la stagione 1997-98 è stata quella in cui ho cominciato a seguire il basket con costanza e forse quella che ha fatto nascere in me la scintilla del giornalismo. La serie di Netflix è riuscita in qualche modo a fermare il tempo e ad aver reso quel periodo ancora attuale. Lo stesso Jordan, del resto, pur avendo oggi 58 anni è un personaggio a cui si guarda come se giocasse ancora.
Non solo. L'imminente arrivo di Space Jam: A New Legacy, con LeBron James che sta al nuovo millennio come MJ stava agli anni '90, è un'altra dimostrazione di quanto lo Space Jam originale, uscito nel 1996, abbia lasciato un segno indelebile su una generazione di cestisti e appassionati. Tanto che di recente Chris Paul, in una partita dei suoi Phoenix Suns, ha messo su una divertente citazione del film: mentre era in panchina, le telecamere lo hanno ripreso mentre beveva acqua o Gatorade da una borraccia con un adesivo recante la scritta Chris Secret Stuff. In una scena di Space Jam, infatti, mentre Jordan cerca di scuotere i Looney Tunes nella sfida contro i Monstars, Bugs Bunny prende una borraccia, riempirla di semplice acqua e attaccarci un'etichetta con scritto Michael's Secret Stuff. Una fantomatica bevanda prodigiosa usata come potente arma psicologica. [foto Sky Sport]
E così, limitandoci al basket, The Last Dance e Space Jam sono due ottimi esempi del grande revival che interessa gli anni '90. Se vuoi un quadro completo su cosa fosse la NBA in quel periodo, ti consiglio il libro So Nineties di Davide Torelli, che puoi acquistare qui.
E infine, chissà, potrebbe anche succedere che la prossima serie tv sui Lakers dello Showtime (il cast è questo) faccia tornare invece sulla breccia gli anni '80…
Fine delle divagazioni nostalgiche: passiamo invece a un'iniziativa molto carina.
Questione di fisica
Conosci Trieste? Nel 2020 è stata la Capitale europea della scienza. In generale, il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia è depositario di una secolare tradizione scientifica, fin da quando nel 1753 venne istituito l'osservatorio astronomico. In seguito, nel corso del Novecento, la città è diventata sede di prestigiose istituzioni scientifiche a livello internazionale. Oggi la sua squadra di basket, l'Allianz Pallacanestro Trieste, cerca di non essere da meno in questo ambito, con iniziative nel segno della tecnologia e dell'innovazione. Una di queste, per esempio, è la recente installazione di videocamere dotate di intelligenza artificiale all'interno dell'Allianz Dome, per consentire allo staff tecnico di analizzare le immagini di allenamento come mai fatto prima e migliorare quindi le prestazioni della squadra.
Sul piano divulgativo, invece, è molto interessante il progetto Scienza a spicchi, che coniuga in modo simpatico e coinvolgente il basket e la fisica. Nato da un'idea del team di comunicazione del club biancorosso e realizzato con ICTP (Centro Internazionale di Fisica Teorica Abdus Salam), SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) e Università di Trieste, Scienza a spicchi vuole avvicinare al basket i ragazzi amanti della scienza e, viceversa, avvicinare alla scienza quelli con il pallino del basket. Come? Con video in cui scienziati triestini appassionati di basket (e ce ne sono più di uno, alcuni anche con trascorsi sul parquet) spiegano le regole della fisica che stanno dietro ai movimenti fondamentali del gioco. Per dirne una, le forze che determinano la traiettoria di un tiro, o la meccanica di una schiacciata. Perché la scienza fa parte, in ogni momento, della nostra vita.
Ti lascio qui il primo episodio. I successivi sono già usciti o stanno uscendo sui canali social della Pallacanestro Trieste.
Shootaround – Consigli di lettura, visione, ascolto, condivisione
Dopo gli inizi con Adidas, Kobe Bryant era diventato un uomo Nike dal 2003, l’anno in cui iniziò la vicenda giudiziaria dell’accusa di stupro. Il 13 aprile 2021, oltre un anno dopo la morte del giocatore, il contratto con Nike è scaduto. Però Vanessa Bryant e la Kobe Bryant Estate, società che gestisce gli interessi della famiglia, non hanno trovato un accordo con il brand per il rinnovo. Che fine faranno, adesso, scarpe e abbigliamento sportivo Nike firmato Kobe? Continueranno a essere prodotti? Il Post, al solito, spiega molto bene cosa c’è in ballo in questo articolo. E, semmai ce ne fosse bisogno, ci dà un'idea di quanto sia complesso il mondo che ruota attorno a una star dello sport, ancor più nella situazione in cui l'atleta in questione scompaia prematuramente.
Nel frattempo, è arrivata anche la prima signature shoe di Zion Williamson: la descrivo qui.
Visto che prima ho parlato di playground, ecco un documentario del fotografo e videomaker Matteo Morsellino sul basket di strada a New York, girato nel 2019.
A proposito di mentalità da strada: Riccardo Pratesi (La Gazzetta dello Sport), nella rubrica Prat Attack sul canale YouTube BIG3, fa un interessante quadro della personalità di Kevin Durant, svelandoci ciò che gli highlights non dicono.
Infatti, ci sono sempre tante cose da sapere su un giocatore oltre quel che fa vedere in campo: The Undefeated ha pubblicato un estratto (in inglese) del nuovo libro di Brian Grant, ex Blazers, Heat, Lakers e Suns, in cui racconta la sua lotta con il Parkinson e la depressione.
Restiamo con Undefeated, ma in questo caso il brand di streetwear: da una partnership con Wilson è nato un pallone speciale in edizione limitata. Mi sembra molto bello.
Shaka Smart, nuovo coach di Marquette University dopo un passato a VCU e Texas, parla al Milwaukee Journal Sentinel dell'importanza che ha avuto per lui il documentario Hoop Dreams del 1994, così come per suo fratello Tyree, che tra l'altro è uno storico del cinema. L’articolo, in inglese, è qui.
Molto interessante l'intervista che Mauro Berruto, ex commissario tecnico della Nazionale di pallavolo ed ex direttore tecnico della Nazionale di tiro con l'arco, ha realizzato con Enes Kanter per il quotidiano Avvenire, sul tema dei diritti negati in Turchia. Oggi Berruto è il responsabile per lo sport del Partito Democratico, nominato dal segretario Gianni Letta, suo amico di lunga data.
Visto che ho nominato la politica, “bilanciamo” con Linton Johnson, ex Chicago Bulls e Scandone Avellino, che oggi vive a Caserta e si candida per il centro-destra, mentre sul suo profilo Instagram dispensa consigli per una sana alimentazione e attività fisica. Ha parlato della sua vita di oggi a La Gazzetta dello Sport e a Sportando. Ha pure un soprannome, “il Presidente”, per il carisma ma anche per l'assonanza con Lyndon Johnson. Che era democratico, però.
Intanto, in tema di marijuana, negli Stati Uniti sono cambiate molte cose negli ultimi anni. E la NBA, seppur da poco, si è mossa di conseguenza. Dario Costa analizza lo scenario per L'Ultimo Uomo.
Da ragazza con lo spazzolone alle partite dei Miami Heat a capo del marketing degli Atlanta Hawks: la storia di Melissa Proctor, tra basket, passione, determinazione e talento, narrata qui (in inglese) da Aishwarya Kumar di ESPN.com.
WNBA: sta per partire la stagione del 25° anniversario. E queste sono le nuove divise realizzate da Nike per la lega professionistica femminile.
Raffaella Masciadri, già capitana della Nazionale italiana e da poco approdata alla Commissione Atleti del CONI, parla di evoluzione tecnologica, sport femminile e importanza di una dual career in una lunga intervista di Alessandra Ortenzi per SportThinking.it, il brand magazine di IQUII Sport.
Per i 100 anni della FIP, Spalding, sponsor tecnico della Nazionale di basket, ha lanciato una speciale capsule collection. Ne ho scritto io qui ma anche Claudio Pavesi di Outpump, qui.
Ci sono novità per Slums Dunk, l'academy di Bruno Cerella in Argentina e in altre parti del mondo. C'è di mezzo anche la street art: ne parla Marco Muffatto su Basketinside.
Ogni tanto è anche giusto indignarsi, come nel vedere le condizioni del Palazzetto dello Sport di Roma, a Viale Tiziano, in queste immagini del Corriere della Sera. Del nuovo bando annunciato dal Comune capitolino, ancora nessuna notizia. Ci sarà modo di tornare sulla questione.
L'EuroLeague è in procinto di lasciare Eurosport e tornare su Sky. E ci si chiede se, dopo aver goduto di Eurosport Player, per appassionati e addetti ai lavori ci sarà ancora un “league pass” di accesso a tutta la stagione, a prezzi accessibili. Vedremo.
Infine, errata corrige. Nel numero 3 di Galis, ho assegnato a Davide Fumagalli il riferimento all'articolo sui sette motivi per cui gli americani adorano la March Madness. Invece l'autore è Paolo Pegoraro. Mi scuso per l'errore e ripropongo il link.
Conclusioni
E con il numero 4 di Galis ho finito. Spero che ti sia piaciuto. Come al solito, alcune cose prima di salutarti.
Sai che potresti aver letto tutta la newsletter senza essere iscritto? Eh sì, ad esempio se ci sei entrato da un web link, oppure se qualcuno te l'ha inoltrata. Ma se ti iscrivi, riceverla e leggerla è più comodo: fallo qui.
Al di fuori di questa newsletter, mi trovi su Never Ending Season, di cui ti invito a seguire anche la pagina Facebook e il profilo Instagram. Puoi scrivermi quando vuoi dal modulo Contatti che trovi sul blog, oppure attraverso i miei profili personali Facebook, Instagram, Twitter e LinkedIn.
Se invece ti interessa il mio libro Il parquet lucido. Storie di basket, una galleria di personaggi, squadre e vicende che hanno lasciato un segno indelebile sul gioco, lo trovi in libreria in tutta Italia o sui principali store online (qui su Amazon).
È tutto. Ci vediamo il 31 maggio. Ciao!