Gentrificazione
#3 - Basket, cultura, lifestyle: qui trovi storie di città, una newsletter prima delle newsletter e lo Shootaround
Ciao, se hai il basket come stile di vita, allora siamo in due.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il terzo numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season. Qui ti parlo di basket, cultura e lifestyle.
Se sei un nuovo iscritto, benvenuto. Ti ringrazio di cuore. Molti altri hanno fatto come te, ed è un bellissimo incoraggiamento. Se c'eri già le altre volte, allora bentornato.
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In Galis seguo la stessa linea editoriale del blog. Esploro le connessioni tra la pallacanestro e tutto ciò che le ruota intorno: libri, film, cultura pop, media, design, arte, luoghi, eccetera. Niente analisi tecniche, breaking news o highlights: per quelli c'è il bombardamento quotidiano dei social e dei siti dedicati.
Voglio invece raccontarti il basket con più calma, oltre il parquet, declinandolo nella società contemporanea e nella nostra vita quotidiana.
Nell'ultima uscita (se te la sei persa, recuperala qui) ti ho raccontato la storia di una scarpa importante, la Nike Foamposite. Ti ho descritto il progetto Local Hoops ed elaborato alcune riflessioni sull'ubiquità digitale.
Se ti chiedi, o non ti ricordi, perché ho scelto il nome Galis, allora devi rileggere il primo numero, qui.
Oggi, invece, ti parlo di città e di... newsletter. Tre storie: cominciamo.
I Brooklyn Nets e la gentrificazione
In oltre un anno di pandemia, ti sarà sicuramente capitato di leggere o di ascoltare discussioni sul futuro delle città, in particolare delle metropoli. Credo che sia ancora presto per avere un quadro chiaro su come si evolverà davvero, nel prossimo futuro, la vita nei contesti urbani. In ogni caso, considerata l'importanza sociale e culturale delle città nel nuovo millennio, è quanto mai opportuno che il loro destino sia oggetto di dibattito. Così come quello di un fenomeno che ha interessato molti grandi centri negli ultimi dieci-quindici anni: la gentrificazione.
Ne hai mai sentito parlare? Questa parola è circondata da un certo hype ed esprime una realtà senza dubbio complessa, con i suoi pro e contro. Ciò che trovo sorprendente è che la si può addirittura associare a una franchigia NBA ben precisa: i Brooklyn Nets. Infatti, l'identità visiva e la narrativa che si sono dati dal 2012 – anno del loro trasferimento dal New Jersey al borough newyorchese – incarna molto bene il concetto. Sia in relazione all’ambiente metropolitano in cui sono attivi, sia per la loro evoluzione come squadra. Azzardando una definizione, potrei dirti che i Nets sono la squadra “gentrificata” della NBA: un tempo periferia dimessa della lega, oggi super team luccicante che attira le grandi stelle.
Insomma, cos'è questa gentrificazione? In poche parole, è il processo di trasformazione delle aree una volta povere, degradate, pericolose di una metropoli in quartieri riqualificati, sicuri, benestanti, persino chic, aggiungerei.
Ecco, c'è un film che ti mostra bene l’idea: Lo stagista inaspettato (The Intern, se preferisci il titolo originale). Una commedia del 2015 con Anne Hathaway e Robert De Niro, la cui ambientazione è quel che cerco di descriverti: una startup con sede in un vecchio stabile industriale rimesso a nuovo, uffici rigorosamente open space, un'umanità smart, urbana e tecnologica, con il MacBook sempre a portata di mano, che si muove in una Brooklyn vivibile e un po' fighetta.
E proprio Brooklyn è il simbolo della gentrificazione del XXI secolo, grazie allo sviluppo di quartieri come Williamsburg e Prospect Heights, Bushwick e DUMBO, che non c'entra niente con l'elefantino ma è l'acronimo di Down Under the Manhattan Bridge Overpass. Quel posto con la classica prospettiva del ponte che compare nel film C'era una volta in America ed è ormai una star di Instagram.
La gentrificazione, in realtà, è un fenomeno che esiste da molto prima, ma negli anni della rivoluzione digitale ha assunto notevoli dimensioni fisiche e socio-culturali, anche come causa/conseguenza del ritorno nelle città rese più sicure e praticabili. Il meccanismo, in sostanza, è questo: zone in passato poco raccomandabili, ma con prezzi più bassi, cominciano prima a diventare meta di qualche temerario bohémien e poi di un numero crescente di studenti, intellettuali, professionisti, giovani famiglie. Del resto, gentrificazione deriva da gentry, che in inglese indica la “piccola nobiltà” urbanizzata. Spuntano come funghi luoghi di ritrovo, locali hipster, gallerie d'arte, quartier generali di aziende hi-tech e così via. All'indubbio miglioramento delle condizioni di vita e al nuovo appeal di queste aree, si accompagna un aumento del costo di affitti e immobili e di conseguenza un pressoché forzato allontanamento di chi magari viveva lì da generazioni e non può più permetterselo.
I detrattori della gentrificazione – sai chi c'è tra loro? Il regista Spike Lee, grande tifoso dei... Knicks! – la vedono come una sorta di colonizzazione, in cui sull'altare di una sicurezza e vivibilità che spianano la strada agli enormi interessi dei costruttori, viene sacrificata e omologata l'identità originaria di questo o quel quartiere, ora riempito di una sequela di caffetterie, loft di lusso e open space tutti somiglianti. Che poi non è detto che sia male: questione di punti di vista, ovviamente.
A proposito, sei mai stato a Brooklyn? È quel gigantesco distretto di New York City che si estende a sud-est di Manhattan, a cui è collegato da due celebri ponti: il Brooklyn Bridge e il Manhattan Bridge. Ha gli abitanti di Roma e sembra una città a sé. Qui hanno vissuto a lungo operai e immigrati, rendendolo un luogo multietnico e diversificato.
Ti racconto una storia. Verso la fine dell'Ottocento, le carrozze a cavallo iniziarono ad andare in pensione e a Brooklyn fu introdotta una rete di tram, i trolley cars. Le persone non erano pronte a un'innovazione del genere. E non di rado capitava che qualcuno, su quei binari, ci lasciasse le penne. Saper schivare i tram in movimento era diventato una pratica di sopravvivenza quotidiana, tanto che gli abitanti di Brooklyn vennero soprannominati trolley dodgers, cioè quelli che schivano i tram, per non essere investiti. Per esteso, dodger sta a significare una persona sfuggente ed evasiva, nonché, nell'accezione più negativa, appunto un evasore, un truffatore. Il nomignolo era diventato così popolare e auto-ironico che nel 1932 ci chiamarono persino una squadra di baseball, i Brooklyn Trolley Dodgers, per farla breve solo Brooklyn Dodgers. Sì, quei Dodgers che nel 1957 vennero trasferiti a Los Angeles, dove giocano ancora oggi. Lasciando a Brooklyn un profondo vuoto di sport professionistico, colmato solo nel 2012 con l'arrivo dei Nets di basket.
Ora, non so se ti ricordi le partite NBA trasmesse da Sportitalia in quel periodo. Dan Peterson, ogni volta che si accennava al trasferimento dei New Jersey Nets, non perdeva occasione di suggerire che fossero rinominati Brooklyn Dodgers. Il suo consiglio non è stato ascoltato, ma in fatto di identità i Nets hanno davvero cambiato le cose.
L'arrivo della franchigia a Brooklyn dall'anonimo New Jersey è coinciso con una vera e propria “riqualificazione” della stessa.
Oltre all'apertura del Barclays Center, fulcro di un'imponente operazione immobiliare e tuttora una delle arene più moderne e affascinanti della NBA, i Nets si sono presentati con una brand identity caratterizzata da un design minimal ed elegante, nella quale ha messo lo zampino Jay-Z, allora proprietario di una quota di minoranza. Sfruttando al meglio le potenzialità dei “non colori” bianco e nero, oltre che del grigio, e introducendo un font sans serif molto comune nelle insegne e nei numeri civici dei quartieri gentrificati (c’è chi lo chiama addirittura gentrification font), i Nets hanno voluto trasmettere un messaggio chiaro: siamo noi la squadra cool di New York, altro che i vecchi e derelitti Knicks.
Da soli, però, colori, caratteri e linearità non bastavano: come riempire di significato quella banalità insita nel nome stesso della franchigia, Nets, che sono le retine dei canestri e nulla più, e sembra venne scelto per assonanza con i Mets di baseball e i Jets di football? Era quindi necessario creare un legame forte con la città e in modo particolare con il borough, radicare la squadra nel tessuto storico e sociale di Brooklyn di ieri e di oggi, esaltarne l'unicità.
Parlando di gentrificazione, intanto, dove realizzare il centro di allenamento? All'ultimo piano di un ex fabbrica ristrutturata, naturalmente. E con vista mozzafiato sullo skyline di Manhattan. Quindi, al Barclays, la scelta di un parquet a spina di pesce che non ha eguali in NBA e che rievoca, anche nelle tonalità cromatiche, i pavimenti in legno delle vecchie brownstones, le tipiche case di arenaria bruna di Brooklyn. Sullo stesso parquet, così come in alcune campagne promozionali, compaiono elementi che richiamano la Subway: i quadratini bianchi simili alle piastrelle che rivestono le stazioni e il font Helvetica della riconoscibilissima segnaletica della metropolitana (e ripresi entrambi nelle divise Earned Edition di quest'anno). Infine, l'introduzione dal 2017 delle maglie City Edition ha offerto l'opportunità di valorizzare la cultura hip hop, con omaggi alla divinità locale The Notorius B.I.G., al suo quartiere Bed-Stuy (con font ispirato ai graffiti e ideato dallo street artist Eric Haze) e a Jean-Michel Basquiat.
Tutto questo mentre la squadra, dopo un inizio di vacche magre e decisioni sbagliate coinciso con la proprietà del russo Mikhail Prokorov, avviava dal 2016 un efficace process con il general manager Sean Marks e l'allenatore Kenny Atkinson e la franchigia passava di mano al taiwan-canadese Joseph Tsai. Il co-fondatore di Alibaba, per dire. Un preludio alla stellare attualità in cui è stato possibile firmare tutti insieme Kevin Durant, Kyrie Irving, DeAndre Jordan, James Harden, Blake Griffin, LaMarcus Aldridge. E darli in mano a un coach a mio avviso molto cool che, per chiudere il discorso, rappresenta al meglio l'idea della “gentrificazione” dei Nets: Steve Nash. Se sul campo tutto dipenderà dalla vittoria o meno di un titolo NBA, in termini di appeal Brooklyn è davvero ben altra cosa rispetto ai tempi del New Jersey, nonostante le stagioni importanti e suggestive vissute nell'era di Jason Kidd e Vince Carter.
Ora facciamo un bel balzo al di qua dell'oceano.
Voglia di Roma
Le recenti cronache hanno sottolineato i trascorsi nel basket di due personaggi che, in Italia, sono tra i più in vista del momento: il presidente del consiglio Mario Draghi, di cui avevo parlato nello scorso numero, e Damiano David, il frontman dei Måneskin vincitori di Sanremo. Punti in comune: entrambi romani, entrambi con un passato nelle giovanili di squadre della capitale. “Super Mario” negli anni '60, con l'Istituto Massimo, la cui formazione senior arrivò addirittura ai vertici nazionali; Damiano non molto tempo fa, nel vivaio dell'Eurobasket, società nata nel 2000 e ad oggi la massima rappresentante della città, oltre che la più ambiziosa, militante in serie A2 al pari della Stella Azzurra. Quest'ultima però disputa le sue partite a Veroli, vicino Frosinone, per la solita mancanza di strutture all'altezza in città.
Tra il passato remoto della pallacanestro capitolina, dove non era raro assistere ad accesi derby nelle categorie più importanti, e il presente in cui si muovono club che hanno sempre messo al primo posto i settori giovanili, avrai notato una profonda voragine: quella lasciata dalla Virtus Roma. Il suo ritiro dalla serie A a campionato in corso è una ferita dolorosissima. E non alimenta certo pensieri positivi il fatto che, almeno finora, non si hanno notizie su progetti di rifondazione e rilancio del glorioso club, a parte voci che vedrebbero interessate alcune squadre delle categorie inferiori.
Al momento, resta quindi l'Eurobasket l'unico discorso aperto per riportare in massima serie il basket capitolino. Non esistono certezze assolute nella pallacanestro italiana, e men che meno di questi tempi, ma il club di Roma sud, salito in pochi anni dopo una lunga gavetta nelle minors, sembra una realtà solida. Il presidente Armando Buonamici ha annunciato la volontà di costruire un nuovo palasport in zona Eur. Nel frattempo la squadra sta giocando in deroga nel piccolissimo PalAvenali di Via dell'Arcadia, approfittando delle porte chiuse, ma non appena potrà tornare il pubblico intende passare all'ex PalaLottomatica. Che però ha costi di gestione molto alti. L'iniziativa dell'Eurobasket è coraggiosa, considerando le croniche difficoltà di realizzare a Roma impianti sportivi adeguati per l'alto livello. Tra l'altro, non si è saputo più nulla del bando comunale per recuperare il Palazzetto dello Sport di Viale Tiziano, il gioiello architettonico di Nervi chiuso (e messo piuttosto male) da alcuni anni, di cui a suo tempo avevo scritto qui.
Forse è solo una sensazione personale, dal momento che vivo nel Lazio, ma mi rifiuto di credere che non ci sia più voglia di grande basket a Roma. Di far tornare periodi come quello, neanche troppo remoto, in cui la Virtus poteva permettersi di firmare Myers, Bodiroga, Jennings, Datome e ospitava addirittura partite di preseason NBA, come i Boston Celtics che proprio nella Città Eterna posero le basi per il titolo vinto nel 2008.
Dopo aver visto e toccato con mano gli splendori di Milano, che vanta l'unica squadra italiana in EuroLeague ed è la città di riferimento per la NBA, immagino che rendere anche Roma una grande piazza di basket, dentro e fuori dal campo, sarebbe una prospettiva estremamente affascinante per l'Italia intera. La passione che pulsa forte nei quartieri, nei playground, nei campionati minori e uno scenario unico al mondo sono elementi che non possono non essere tenuti in considerazione.
Sì, hai ragione, sto sognando troppo. Però, guardando cosa hanno realizzato al playground di San Lorenzo, forse no.
La newsletter prima delle newsletter
Scrivendo questo numero di Galis, mi sono accorto che il concetto di gentrificazione si può applicare anche alle newsletter, con la nuova età dell'oro che stanno vivendo.
La newsletter non è nata ieri. Probabilmente, ricorderai che durante il boom iniziale delle connessioni internet, tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi Duemila, era uno strumento molto utilizzato, prima che la piaga dello spam e l'invadenza dell'email marketing ne decretassero il tramonto.
Oggi le newsletter, “riqualificate” grazie a piattaforme intuitive, accattivanti e sicure, sono tornate in auge. E uno degli impieghi principali riguarda il giornalismo. In un periodo in cui questo settore, di cui faccio parte, è alla disperata ricerca di nuovi modelli professionali e delle possibilità di costruire un audience accettabile senza svenarsi con le inserzioni sui social e sottostare agli algoritmi, la newsletter vuole proporsi come un prodotto informativo di qualità.
Sono iscritto a Ellissi, una newsletter molto curata sul mondo del giornalismo e dei media digitali, prodotta dal digital strategist Valerio Bassan. Se ti interessano queste tematiche, te la consiglio. In un'uscita di qualche tempo fa, Bassan ripercorreva le origini delle newsletter. Le prime nacquero negli Stati Uniti, quando il digitale non era ancora qualcosa di concepibile dalla mente umana. Nel più hard copy dei mondi possibili, tra gli anni Trenta e Quaranta, alcuni giornalisti presero a comporre e stampare newsletter cartacee in autonomia, da distribuire a pagamento, per veicolare un'informazione più indipendente e libera rispetto ai quotidiani per cui lavoravano. All'epoca i giornali non erano in crisi, ma se ci pensi bene, anche l'odierno picco di popolarità delle newsletter è nato dall'esigenza di creare un rapporto diretto tra il giornalista e te che leggi, in uno scenario sempre più complesso e dispersivo per tutti.
Chiudo qui la digressione, ma è opportuno spiegarti perché mi è venuta in mente. Non molto tempo fa ho appreso della scomparsa di Tom Konchalski, a 74 anni, avvenuta l'8 febbraio a New York. Konchalski è stato uno dei più famosi scout (osservatori, più o meno) del basket liceale americano ed era noto come autore di una vera e propria newsletter “analogica”: cartacea, dattiloscritta, inviata per posta, direi pure B2B, perché a riceverla erano solo gli allenatori universitari, che pagavano un abbonamento annuale. Come sai, i licei negli USA sono costantemente monitorati dai coach e dai reclutatori dei college, pronti a offrire borse di studio ai migliori prospetti.
Si chiamava HSBI Report, acronimo di High School Basketball Illustrated, ed è esistita dal 1964 al 2020. Konchalski ci lavorò dal 1979 e la rilevò dal suo fondatore, Howard Garfinkel, nel 1984. L’ha portata avanti fino a un anno fa, prima di ritirarsi a causa del cancro che lo avrebbe condotto alla morte. Eccone un numero del 1990, nella foto di Sabrina Santiago per il New York Times.
Ci sono un paio di cose che ti sorprenderanno. La prima è che, allergico a qualsiasi moderna tecnologia, Konchalski fino alla fine ha continuato a batterla a macchina con una vecchia Swintec nel suo appartamento nel Queens. Quindi fotocopiava, spillava e imbustava ogni fascicolo per inviarlo via posta a un elenco di oltre 200 allenatori. Ciascuno dei quali pagava circa 400 dollari a Tom, pur di avere le 16 uscite annuali (una ogni tre settimane) di quel prezioso report sui campioni del futuro.
L'altra cosa strana è che l'Illustrated del titolo non voleva dire assolutamente nulla: era tutto testo. Carta patinata e immagini comparvero soltanto nel primo numero di HSBI, ma Konchalski non volle mai cambiare il nome. Così come non c'è mai stato un sito web, una versione digitale o un profilo social.
Avrai già intuito che Konchalski era un uomo vecchio stile, educato e rispettoso. Ed enormemente rispettato per l'autorevolezza, la competenza, l'affidabilità e l'onestà delle sue valutazioni, in un mondo sempre più popolato personaggi dai secondi fini e losche trame. Giocatore mancato, ha fatto lo scout per 43 anni, iniziando da giovane sui playground di New York al seguito di Connie Hawkins. Si era guadagnato così una fortissima reputazione, soprattutto nel nord-est, perché difficilmente viaggiava oltre. Scapolo, aveva la fama di maniaco del basket, una memoria fotografica e una curiosità sconfinata. Tra l'altro non aveva la patente e si spostava solo con i mezzi pubblici.
La sua forza erano le relazioni. Arrivava alle partite di high school con largo anticipo, per parlare con giocatori e allenatori, stabilendo un rapporto sincero con tutti. Cercava di capire il più possibile chi avesse di fronte, anche da una semplice stretta di mano. E tutte le informazioni riportate nella newsletter nascevano sempre da fonti dirette, mai di seconda mano o per sentito dire. I suoi giudizi spostavano e tutti lo consideravano un'autorità. Un vero influencer prima degli influencer.
Durante le partite, si piazzava sulla gradinata più alta, in corrispondenza della linea di metà campo, e prendeva appunti su un blocco legale giallo. Li conservava tutti. Per valutare ogni giocatore aveva un sistema di tredici categorie e usava un lessico ricco di metafore, allusivo e ironico. Sotto la sua penna sono passati alcuni dei più grandi di sempre: Michael Jordan, Kobe Bryant, Kyrie Irving, ma anche i recentissimi Cade Cunningham e BJ Boston. Il giornalista del New York Magazine Jason Zengerle lo definì “Oracolo del parquet” (Oracle of the hardwood) in questo lungo articolo.
Curiosità: suo fratello Steve Konchalski è stato un famoso allenatore di college in Canada e ha guidato la nazionale canadese ai Mondiali '98, di cui ho parlato in un capitolo del mio libro Il parquet lucido.
Altra curiosità: dopo aver chiuso HSBI Report per motivi di salute, a Tom, che mai aveva avuto un cellulare, è stato regalato un iPhone. E ha trascorso i suoi ultimi mesi di vita imparando a usarlo.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Ti romperò un po' le scatole, nei prossimi mesi, con il nuovo romanzo di John Grisham. Concedimelo: non capita tutti i giorni che il tuo scrittore preferito scriva un libro sul tuo sport preferito! Ma se conosci Grisham, il "re del legal thriller", sai che è un grande appassionato. Ha già scritto romanzi su baseball e football americano, e ora uno sul basket. Il titolo è Sooley e uscirà negli Stati Uniti il 27 aprile (qui trovi come preordinarlo in inglese). In Italia, Mondadori dovrebbe rilasciarlo a luglio, con il titolo Il sogno di Sooley. Spero in una buona traduzione, perché quando c'è di mezzo lo sport americano il rischio di strafalcioni è sempre alto...
Ti anticipo qualcosa sulla trama: Samuel "Sooley" Sooleymon è un diciassettenne del Sud Sudan con un grande talento per il basket, che ha l’opportunità di andare per la prima volta lontano da casa. Dove? Negli USA, a giocare un torneo, sotto gli occhi degli osservatori dei college. Nel frattempo, in patria scoppia una guerra civile che mette in pericolo la sua famiglia. Sooley non può tornare a casa e per lui l'unica strada è affermarsi in America attraverso il basket, per portare presto lì i suoi cari.
In esclusiva sul profilo Instagram di Never Ending Season ho lanciato Never Ending Week (NEW): ogni sabato un post a galleria con quattro notizie flash di basket e lifestyle dell'ultima settimana. Se ti va, seguimi.
Ora ti consiglio un po' di contenuti interessanti, dal web e dal mio blog.
Dal 3 al 5 aprile a Indianapolis c'è la Final Four NCAA. Paolo Pegoraro di Eurosport elenca sette motivi per cui gli americani impazziscono per la March Madness.
Il 23 marzo ci ha lasciato Elgin Baylor, leggenda dei Lakers ed energico difensore dei diritti civili. Di recente Mo Bamba degli Orlando Magic ne aveva parlato su Uninterrupted, la piattaforma multimediale di LeBron James. Un video bellissimo.
E neanche a farlo apposta, la divisa City Edition dei Lakers di questa stagione è proprio un omaggio a Baylor. Ne ho scritto qui, insieme alle altre nove che reputo le migliori.
A proposito di jerseys, su Esquire Claudio Pellecchia racconta cosa significa essere un collezionista di canotte NBA.
Restiamo ancora in NBA. CJ McCollum dei Blazers è rientrato da un infortunio, ma sicuramente fuori dal campo non si annoia, visto che vuole diventare un giornalista (ne ho parlato qui) e si è lanciato come produttore di vino (qui). E ora è pure testimonial delle Crocs!
Se segui il mercato NBA, le cui trade si sono concluse da pochi giorni, sicuramente conosci Shams Charania: se vuoi sapere come è diventato quello che è, leggi questo.
Per la pandemia, i Toronto Raptors resteranno a Tampa fino al termine della stagione: qui trovi un po' di cose sull'arena in cui giocano.
Passiamo in Italia. Ti presento Zona Press, un interessante magazine nato a Roma e dedicato al basket italiano e ai suoi personaggi, anche quelli che si muovono dietro le quinte. Ecco due interviste, una da leggere e una da guardare: quella al fotografo Gennaro Masi e quella al giornalista e dirigente Francesco Carotti.
L'Olimpia Milano è su Spotify con un account ufficiale, questo. Ci trovi le playlist scelte da giocatori e coach e quelle messe su durante il riscaldamento della squadra.
Ho scritto un pezzo sul palazzetto dello sport di Terni, la Cupola. È piaciuto un sacco. Ed è successa una cosa carina: io l'avevo paragonato a un disco volante di un vecchio film di fantascienza, ma vari lettori ci hanno visto una forte somiglianza con la sede della Capsule Corporation del cartoon Dragon Ball (che ammetto di conoscere pochissimo!). E Turnover Newsletter ha pubblicato questa.
C'è un eccellente storytelling fotografico di Chris Donovan a tema basket tra i finalisti del World Press Photo 2021. Parla della difficile Flint, in Michigan, e dei Jaguars, la squadra dell'unico liceo rimasto in città. Guarda qui tutte le immagini.
Infine, un progetto molto, molto interessante: Overseas. Realizzato, in inglese, da creativi italiani. Al momento ci sono sito, Instagram e la possibilità di iscriversi alla nascitura newsletter, e non è poco. Nelle intenzioni dei fondatori c'è anche un magazine cartaceo. La linea è questa: raccontare la bellezza e la diversità del basket dentro e fuori dal campo, la cultura che circonda il gioco, da un punto di vista europeo e con storie originali e immagini affascinanti. In bocca al lupo!
Conclusioni
Sei giunto così alla fine del numero 3 di Galis. Spero di averti raccontato cose interessanti e che continuerai a seguirmi.
Al di fuori di questa newsletter, mi trovi su www.neverendingseason.com, di cui ci sono anche pagina Facebook e il profilo Instagram. Puoi scrivermi quando vuoi dal modulo Contatti che trovi sul blog, oppure attraverso i miei profili personali Facebook, Instagram, Twitter e LinkedIn.
Se invece ti interessa il mio libro Il parquet lucido. Storie di basket, una galleria di personaggi, squadre e vicende che hanno lasciato un segno indelebile sul gioco, puoi acquistarlo in libreria in tutta Italia o sui principali store online (qui su Amazon).
Prima di lasciarci, ti chiedo una piccola accortezza. Quando riceverai questa mail, potrebbe finire nella tua cartella spam a causa dei filtri che, giustamente, limitano la fastidiosissima posta indesiderata. Se ti è successo, e per evitare che accada ancora, devi fare due cose: contrassegnare questo messaggio come “non spam” e salvare il mittente nella tua rubrica. Se non fosse neppure nella cartella spam, controlla nella tab Promozioni (se usi Gmail sai di cosa parlo).
Trascorri una serena Pasqua e ci vediamo il 30 aprile. Ciao!