Coast to coast
#34 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi New York, Winning Time, Langston Galloway e tanti libri
Ciao, ma quanto è bello che Shaquille O'Neal e Allen Iverson saranno presidente e vice presidente di Reebok Basketball?
Io sono Francesco Mecucci e questo è il numero 34 di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di pallacanestro come cultura e stile di vita.
Al centro della scorsa uscita – puoi recuperarla qui, se l'avessi saltata – c'è stato il rapporto tra basket e musica, con un'intervista a Luca Mich di Better Go Soul, più due parole su Suga dei BTS e sulla sua passione per la palla a spicchi.
Oggi, visto che è appena iniziata la nuova stagione NBA, ti porterò da New York a Los Angeles, con una puntatina a... Reggio Emilia. Prima di iniziare, però, ho una cosa da farti vedere.
Il 20 ottobre è uscito in libreria e negli store online Film Pop Anni '90 di Matteo Marino, Simone Stefanini ed Eva Cabras. Un volume che rievoca, con grande competenza e piacevole ironia, i film più iconici di quello straordinario decennio.
Cosa c'entro io? Ho curato in “featuring” con gli autori il capitolo su Space Jam e nel raccontare il mitico film con Michael Jordan e Bugs Bunny ho potuto mettere insieme la mia passione per il basket e tanti ricordi d’infanzia e adolescenza.
Ringrazio Matteo per avermi coinvolto, insieme ad altri ottimi autori. È stata una bellissima e divertente opportunità. Lo puoi acquistare qui.
E ora partiamo per la Grande Mela!
In a New York minute
Se hai qualche annetto – ma non troppi, eh! – e sei un vero appassionato di NBA, probabilmente non ti perdevi un numero di American Superbasket, il quindicinale italiano esistito, nella sua versione originale, fino al 2011.
Riempiva le pagine di questa rivista, rimasta orgogliosamente cartacea fino all'ultima uscita, una generazione di giornalisti “vecchia scuola”, se così si può dire. Da Claudio Limardi a Roberto Gotta, da Stefano Benzoni a tutti gli altri, compreso Federico Buffa con le sue rubriche, queste firme ponevano come condizione essenziale la conoscenza diretta di ciò che poi avrebbero scritto: recarsi sul posto, osservare, fare domande, ragionare e raccontare, per offrire a te lettore un vero servizio, con reale cognizione di causa e contenuti che da altre parti non avresti trovato.
Ebbene, se eri dunque un fedele lettore di ASB, il 22 aprile 2010 il tuo edicolante di fiducia ti consegnò il numero con questa cover.
LeBron James con la divisa dei New York Knicks? Esatto. Un fotomontaggio, ovviamente. Se non ti ricordi la storia, te la riassumo.
Il Re era in scadenza di contratto: il 30 giugno di quell'anno si sarebbe dichiarato free agent per esplorare il mercato e scegliere la miglior destinazione per il prosieguo della sua carriera. Stava ancora disperatamente cercando, senza riuscirci, di portare al titolo i Cleveland Cavaliers, i quali però cominciavano ad andargli stretti. Perché LeBron nel frattempo era diventato il volto della NBA, la cosa più vicina a Michael Jordan che si fosse mai vista. E in più era, come oggi, un tipo che al marketing un minimo ci badava...
Ad aprile ancora non si sapeva nulla di The Decision, il famoso e discusso show in cui l'8 luglio avrebbe annunciato il trasferimento ai Miami Heat. Per cui le fantasie volavano libere, parafrasando il buon Vasco, e le ipotesi su quali squadre avrebbero potuto firmare King James erano il pane quotidiano delle cronache sportive. Un clima di fervida immaginazione che non risparmiò Claudio Limardi, oggi responsabile della comunicazione dell'Olimpia Milano e all'epoca direttore e prima firma di ASB.
Per una volta, Limardi abbandonò il suo pragmatismo per presentare ai lettori un lungo, inedito e per certi versi azzardato pezzo fiction in cui rappresentava verosimilmente la situazione intorno a LeBron. Un articolo di fantasia per prevedere, andando avanti nel tempo – il titolo era infatti Flash Forward – cosa sarebbe potuto accadere allo scoccare della mezzanotte del 1° luglio 2010, punto d’inizio di una delle più importanti free agency della storia della NBA.
Poggiando su basi reali – d'altronde Limardi si è sempre distinto per l'equilibrio, la solidità e la chiarezza dei suoi servizi – scrisse una storia che è quasi una sceneggiatura, sfruttando abilmente l'enorme curiosità dei lettori per sapere quale divisa avrebbe vestito l'allora ventisettenne LeBron e in quale piazza avrebbe massimizzato il proprio potenziale atletico ed economico.
Disposti i vari personaggi come pedine su una scacchiera (da Maverick Carter a Pat Riley, da Dan Gilbert a... Jay-Z), Limardi immaginò scenari e trattative, tracciando un plausibile quadro in cui ad avere la pole position erano i New York Knicks, allora allenati da Mike D'Antoni e diretti da Donnie Walsh. In quel momento, infatti, avrebbero davvero potuto sparigliare il mazzo e dar vita a una storia eccezionale: il più celebre cestista del mondo nella “Arena più famosa del mondo” e nella città che del mondo è considerata la capitale.
Tutto ciò, come ben sappiamo, non si realizzerà. LeBron James ai Knicks rimarrà solo una suggestione. Che però ben riflette l'approccio di New York verso la NBA. Ti ho infatti voluto raccontare questo ricordo proprio per dirti qualcosa sullo spirito della Grande Mela. L'ambiente più competitivo che esista, dove si pretende il meglio, dove il successo deve arrivare in a New York minute, espressione che vuol dire subito.
Una concezione che però fa a pugni con la natura della NBA, la quale invece premia la lungimiranza nel costruire una squadra vincente passo dopo passo, attraverso scelte al Draft, sviluppo dei giocatori e scambi mirati. Un po' come i Denver Nuggets campioni in carica hanno dimostrato nell'ultima stagione, nonostante la NBA, enorme macchina da business, farebbe carte false per avere una finale tra Knicks e Lakers (e chissà se le andrebbe bene anche Nets-Clippers). Ma le piazze sportive delle due metropoli più importanti sono anche tra le più umorali e instabili che ci siano.
I Knicks hanno vinto il titolo soltanto due volte, entrambe all'epoca della presidenza Nixon: 1970 e 1973. Dopodiché, a parte i ruggenti anni Novanta e un breve hype nel periodo di Carmelo Anthony all'inizio degli anni Dieci, non sono mai stati davvero sulla cresta dell'onda. Anzi, non si contano le stagioni da squadra “barzelletta”, tra mille problemi e scelte sbagliate, dalle bizze del poco amato proprietario James Dolan in giù.
Ma intorno ai Knicks la pressione è sempre fortissima: o giochi per il titolo, o i media ti criticano di brutto e il super esigente pubblico ti ignora, perché non è che a New York non ci sia altro da fare... Alle elevate aspettative della piazza c'è sempre stata difficoltà a far corrispondere una franchigia funzionale (attenzione, succede anche in altri sport presenti in città!) e, a parte qualche eccezione, i migliori dirigenti, coach e giocatori di norma si tengono a debita distanza da lì. Tanto che gli attuali Jalen Brunson e coach Tom Thibodeau, due onesti mestieranti che se non altro hanno riportato la squadra ai playoff, sembrano i nuovi messia della Big Apple.
Per questo, ciclicamente, dalle parti di Manhattan torna ad affacciarsi il sogno di accogliere una superstar, perché un mercato simile ha bisogno dei grandi titoli e di orizzonti enormi. Come sembrava garantirli, quella volta, il miraggio LeBron James. E mentre in quest’ultima estate la offseason è stata monopolizzata dal destino di Damian Lillard che aveva chiesto invano di andare a Miami, per i Knicks sono stati fatti i nomi di Giannis Antetokounmpo (poi “bloccato” da Milwaukee proprio in seguito alla firma di Lillard), James Harden e Joel Embiid.
E addirittura Magic Johnson, icona Lakers, ha affermato che l'unica franchigia in cui investirebbe i suoi denari sono proprio i blu-arancio, tra l'altro uno dei club sportivi di maggior valore economico del pianeta. Ad accrescere la voglia di successo al Madison Square Garden ci si sono messe pure le Liberty finaliste in WNBA, loro sì al centro di un importante percorso di crescita.
Eppure, malgrado oltre mezzo secolo senza titoli NBA e quasi un quarto di secolo senza finali (le ultime, perse, nel 1999), il basket a New York, tra l’altro sede della lega, rimane sempre, indiscutibilmente The City Game, come il titolo dell'essenziale libro di Pete Axthelm uscito proprio negli anni d'oro, nel 1970. In nessun'altra città il cuore “a spicchi” batte così forte, dalle centinaia di playground con tornei come il Rucker e il Dyckman ai campionati liceali, dalle università locali (St. John's in particolare) alla cultura cestistica che si respira in ogni angolo. Ma al Garden la gente vuole solo il meglio, e forse è per questo che non si sarà mai davvero contenti finché non arriverà un giocatore epocale in cui identificarsi e che sia in grado di riportare i Knicks in vetta alla NBA.
Losing Time
Da New York, facciamo ora un balzo coast to coast a Los Angeles. Dove si era riusciti a girare una serie tv sui Lakers, unendo la vocazione cinematografica della città di Hollywood con le vicende della squadra NBA più dramatic di tutte.
Come penso tu abbia intuito, sto parlando di Winning Time, la produzione HBO trasmessa in Italia da Sky e dedicata all’ascesa della dinastia giallo-viola negli anni Ottanta. La notizia è di qualche settimana fa: la serie non sarà proseguita e si fermerà alla seconda stagione. Al termine dell'ultimo episodio, così, sono stati aggiunti in fretta e furia dei forzatissimi titoli di coda (quelli classici su cosa diventeranno i protagonisti in futuro) per far capire al pubblico che sarebbe finita lì.
Winning Time va quindi in archivio con una... sconfitta, quella nelle finali 1984 contro gli storici rivali Boston Celtics (ok, ho spoilerato, ma tanto se conosci la storia della NBA sai come è andata, no?). Le cause? Sembra che gli ascolti siano stati un flop, anche se la messa in onda in estate non ha certo aiutato. Poi, gli elevati costi di realizzazione, le critiche aperte di alcuni influenti diretti interessati (Jerry West, Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar), la scarsa popolarità ottenuta presso il pubblico generalista e, non ultima, la lunga fase di scioperi nel settore cinematografico.
Ti esprimo rapidamente qualche mia opinione, come avevo già fatto in Galis #18. Nella prima stagione ho riscontrato un'ottima costruzione narrativa e dei personaggi, accompagnata da scene di basket poco realistiche, da videogioco arcade. Al contrario, la seconda ha presentato un’efficace resa delle scene di gioco e una sempre eccellente ambientazione, ma il ritmo della storia non è mai decollato. Forse, avendo pure concentrato 4 anni in 7 episodi, a differenza dell'unica stagione (la 1979-80) narrata nella prima stagione e spalmata su 10 puntate, mi ha dato l'impressione di non creare mai un certo pathos e di essere piuttosto sbrigativa in vari passaggi importanti.
In particolare, a mio avviso, non si è spinto a sufficienza sull'avvento di Pat Riley, il coach – interpretato da un comunque ottimo Adrien Brody – che avrebbe sciolto le briglie della squadra ed entusiasmato il mondo intero. Avrei enfatizzato molto più la figura di questo allenatore maniacale e tormentato, partito in sordina e poi diventato il “Michael Douglas” della NBA, così come il parallelismo tra lo spumeggiante stile di gioco detto Showtime e il clima di edonismo sfrenato che forse in nessun'altra città o epoca avrebbe potuto realizzarsi.
Gli stessi Magic, West, Kareem, Jeannie Buss, Paul Westhead e altre figure chiave perdono parecchia consistenza nella seconda stagione, mentre la rappresentazione dei “nemici” Larry Bird e Red Auerbach sale nettamente di livello. Così, tra i Lakers, l'unico dominatore assoluto resta il proprietario Jerry Buss, grazie alla magistrale interpretazione di John C. Reilly, in un ruolo che incarna alla perfezione colui che intuì prima di tutti, anche di David Stern, cosa sarebbe diventata la NBA contemporanea. Allo stesso modo – e anche questo lo salvo – è ben reso il momento in cui Magic “esonera” coach Paul Westhead, un preludio allo strapotere di cui i giocatori godono oggi.
Winning Time in fin dei conti è una serie godibile. Non escludo che un giorno mi rivedrò con calma almeno tutta la prima stagione, magari dopo aver letto l'omonimo libro di Jeff Pearlman da cui è tratta e del quale Claudio Pellecchia offre qui un’interessante recensione. Peccato quindi per l'interruzione: poteva diventare una memorabile saga per raccontare non solo i Lakers e la NBA, ma in generale la società e la cultura degli anni Ottanta. Però qui, ormai, siamo nel campo dei what if...
Goditi la sigla, piuttosto. Il brano è My Favorite Mutiny dei The Coup.
L'etica di Langston
In questa stagione tra i motivi d'interesse del campionato italiano di Serie A c’è la presenza, a Reggio Emilia, di Langston Galloway, per diverse stagioni buon comprimario NBA che ha vestito le maglie di New York Knicks, New Orleans Pelicans, Sacramento Kings, Detroit Pistons, Phoenix Suns, Brooklyn Nets e Milwaukee Bucks. A trentadue anni ancora da compiere, il nativo di Baton Rouge, Louisiana, uscito dall'università di St. Joseph's (una delle Big 5 di Philadelphia), ha scelto di fare la sua prima esperienza overseas – come dicono gli americani – ed è un personaggio interessante da seguire anche fuori dal campo, dove coniuga business e impegno sociale.
Insieme alla moglie Sabrina Stansberry, che ha un master in gestione aziendale conseguito alla Tulane University, Galloway è titolare di un brand indipendente di scarpe e abbigliamento da basket, Ethics, lanciato due anni fa. Un'impresa piuttosto coraggiosa, in un mondo dominato da colossi come Nike, Adidas, Under Armour. Langston, enorme appassionato di sneaker e titolare di una collezione di oltre 4000 pezzi, avrebbe voluto una sua signature shoe ma probabilmente, non essendo una superstar, l'unico modo per riuscire nell’intento era crearsela da solo.
Con il coinvolgimento del designer Brett Goliff, che aveva esperienze in New Balance ma anche in Chevrolet, nasce così nel 2022 la lgONE, seguita dalla lgTWO di quest'anno. L'idea era nata qualche anno prima, dopo la fine del rapporto con un suo sponsor, Q4 Sports, di cui avrebbe desiderato essere il direttore creativo. La mission del brand è quella di assicurare prodotti di qualità a un prezzo più accessibile rispetto ai marchi più importanti del settore.
Ethics è un nome che contiene un doppio significato: l'etica del lavoro, in quanto Galloway si è costruito la sua carriera NBA soltanto con il sudore e la determinazione, passando da undrafted attraverso summer league, training camp, contratti a tempo fino alla sua prima stagione da professionista, la 2015-16, in cui si guadagna fiducia soprattutto nel quarto periodo e si distingue nel tiro da tre; e l'etica sociale, dal momento che i suoi prodotti utilizzano soltanto materiali che non hanno origine animale e materiali riciclati per il packaging.
Non è facile ritagliarsi uno spazio nel mercato delle calzature sportive e quindi al momento è difficile prevedere se Ethics avrà successo, ma è sicuramente da apprezzare l'atteggiamento di Langston Galloway con cui, giorno dopo giorno, vuole imparare mettendo in campo la stessa dedizione che gli ha permesso di restare in NBA per anni, rendendosi affidabile con concretezza e attenzione ai dettagli.
Il tutto si traduce anche nell'attività della The Langston Galloway Foundation, creata nel 2018 in Louisiana e presieduta da Sabrina. Si fonda sul binomio tra sport e studio, puntando ad aiutare giovani in difficoltà a diventare validi studenti-atleti tramite camp e clinic di basket, programmi nutrizionali e riqualificazione di playground. Quest’ultima attività coinvolge realtà americane affermate quali Local Hoops, Five-Star Basketball e Project Backboard, come nella campagna Every Court has a Story.
Shootaround - Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Cominciamo da un playground riqualificato, quello di San Filippo a Lucca: ne parlo qui sul mio blog.
E proseguiamo con un'arena: il Palazzetto dello Sport di Viale Tiziano a Roma, riaperto dopo cinque anni. Ma i lavori non sono finiti e l'inaugurazione sarà a gennaio: così Fabio Grilli di Roma Today.
La parità di genere in NBA: l’analisi di Andrea Lamperti per Rivista Undici.
Sono passati 30 anni da quel 6 ottobre in cui Michael Jordan annunciava di voler giocare a baseball: lo ricorda Mario Salvini sul blog Che Palle!
Danilo e Federico Gallinari hanno ospitato Alessandro Cattelan nel loro podcast A Cresta Alta.
L'intervista di Vanessa Perilli di Marie Claire a Valentina Vignali, cestista, modella e personaggio tv: da leggere qui.
Josh Denzel, presentatore e commentatore tv britannico, è il testimonial di Primark per l’abbigliamento sportivo e qui presenta la collezione NBA a cui ha collaborato, con video qui.
C'è tempo fino al 10 gennaio per partecipare al Premio USSI Lo sport e chi lo racconta 2023, indetto dall'Unione Stampa Sportiva Italiana: se sei un giornalista, scopri come iscriverti.
Su HuffPost la storia di Dut Mabor, il 2.16 sudsudanese in forza a Napoli (unico in Italia) con il sogno NBA: qui l'articolo di Carmelo Prestisimone. (solo abbonati)
Bruno Cerella racconta a Sportal.it le sue attività imprenditoriali e sociali.
Qui scrivo di The Cagers, il progetto nazionale per formare una squadra di detenuti.
Terence Mann dei Los Angeles Clippers, insieme ad altri giocatori NBA, ha firmato con Skechers, il brand di scarpe che sta entrando nella pallacanestro. Qui l'intervista di SLAM. (in inglese)
E se vuoi entrare in profondità nell’industria delle scarpe da basket, è nata Sneaker Game, la newsletter di Nick DePaula, uno dei massimi esperti del settore: iscriviti qui.
Sempre su SLAM, He's here: Shea Serrano presenta Victor Wembanyama. Eccolo. (in inglese)
Questo è il primo shooting di Kobe Bryant con Adidas nel 1996.
Tutte le regole del nuovo In-season Tournament sul sito ufficiale NBA. (in inglese)
Sai che se ti abboni a tutte le tv e piattaforme che trasmettono basket, spendi oltre 600 euro all’anno? La guida completa de La Giornata Tipo.
The King & The Viking: lo spot delle cuffie Beats con LeBron James e la star del calcio Erling Haaland.
Ormai il panorama editoriale italiano è pieno di libri su LeBron: ne ho elencati otto.
A proposito di libri, ci sono tante novità in questo periodo. Tra i titoli in italiano:
Alessandro Mamoli racconta le partite che hanno fatto la storia in Dream Games, uscito per Rizzoli (acquistalo qui).
Matteo Girardi, fedele lettore di Galis, firma per Ultra Edizioni Una magnifica ossessione. Basket e vita nella Bologna degli anni Novanta (in vendita qui).
Sempre per Ultra è uscito Anni Dieci di Stefano Belli, il racconto dell’epoca che ha cambiato la NBA (disponibile qui).
Stephen Curry. Best Shooter Ever di Marco A. Munno: Steph raccontato attraverso il suo tiro (dal 3 novembre, preordinalo qui).
Davide Torelli è l'autore di Shaquille O'Neal. La biografia definitiva di The Big Diesel, in uscita per Diarkos (dal 7 novembre, preordinalo qui).
Sangue al Garden è la storia dei New York Knicks degli anni Novanta, libro di Chris Herring che arriva in versione italiana per 66thand2nd (dal 14 novembre, preordinalo qui)
E se sei un vero shoedog, o sneakerhead se preferisci, Ippocampo Edizioni ha pubblicato 1000 Sneakers Deadstock, volume che racconta come alcune scarpe da ginnastica siano diventate veri e propri oggetti di culto del XXI secolo. Attraverso collezioni, interviste e iconiche campagne pubblicitarie, il team di Larry Deadstock, boutique di riferimento di Parigi, ripercorre la storia delle calzature sportive dal 2000 a oggi. E c'è molto basket, ovviamente. Il libro è in vendita qui.
Tra le uscite in inglese, ti segnalo invece:
Lucky Me, il memoir autobiografico di Rich Paul, con prefazione di LeBron James (disponibile qui).
Life in the G di Alex Squadron, un libro sul mondo della G League, con prefazione di Andre Ingram (estratto qui, acquisti qua).
Sports Illustrated ha dato alle stampe The Story of Basketball in 100 Photographs (eccolo).
Ancora scarpe con A history of basketball in fifteen sneakers di Russ Bengston, con prefazione di Bobbito Garcia (estratto qui, acquisti qua).
Conclusioni
Eccoci alla fine di questo numero 34 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter. Mi raccomando, spargi la voce!
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È tutto, ci vediamo il 30 novembre. Ciao!