Lunga vita al Re
#21 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi LeBron James, le divise NBA anni '90 e nuove Final Eight
Ciao, se durante l'anno le tue stagioni sono scandite dalla pallacanestro, allora sei finito nel posto giusto.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il ventunesimo numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
Nell'ultima uscita (se non l'hai letta, rimedia qui) ho scritto di europei, di Galis – inteso come Nikos – e Giannis, del pallone Molten e di Gaia Accoto.
Domani inizia ottobre, il mese atteso da tutti gli appassionati di NBA. Perché i training camp sono in corso e il 18 riparte la regular season. È sempre bello, come canta Coez. Seguimi, allora: è il momento di raccontarti di un re. No, non Carlo III d'Inghilterra: un altro che ben conosci.
King James XX
Chi compie gli anni negli ultimi giorni di dicembre ti ha mai dato l'impressione di invecchiare più tardi degli altri? LeBron James, che è nato il 30, è uno di questi. Non ha ancora tagliato il traguardo dei trentotto ed è in procinto di cominciare la sua ventesima stagione NBA. Ripeto: venti-stagioni-NBA. Forse non è solo un'impressione...
Ha la stessa età di Mark Zuckerberg, entrambi del 1984, l'anno in cui Michael Jordan debuttava nella lega. Certo, ha molti miliardi in meno di mister Facebook. Anzi, stando a Forbes, ne ha “solo” uno: lo scorso giugno il suo patrimonio ha superato il miliardo di dollari guadagnati in carriera tra stipendi, sponsor e investimenti. È stato il primo giocatore di basket a riuscirci e il sesto tra gli atleti in attività: gli altri sono Tiger Woods, Floyd Mayweather, Cristiano Ronaldo, Lionel Messi e Roger Federer (appena ritiratosi, grazie di tutto Roger!).
Ma senza nulla togliere a Zuck, LeBron è a suo modo un formidabile CEO che ha indelebilmente segnato il modo di fare sport professionistico e di fare impresa ai livelli più alti nel nuovo millennio.
È un discorso che va ben oltre il denaro, perché ha a che fare con la capacità di influire in profondo sulla società, toccare tantissime vite e costruire una narrativa sempre orientata a portare al massimo ogni attività. Una costante ricerca dell'eccellenza, della grandezza, tracciando una via affinché anche altri possano realizzare il proprio potenziale: se lo segui sui social, uno dei suoi hashtag ricorrenti è #StriveForGreatness.
Ci siamo intesi, insomma: non è solo basket. Per LeBron è davvero more than a game, come il titolo del documentario che ci riporta alle sue origini, ai tempi del liceo, alla presa di coscienza del suo posto nel mondo, quando era just a kid from Akron.
Ogni giorno nei prossimi mesi LeBron James per la ventesima volta si alzerà, si allenerà e scenderà sul parquet per cercare la vittoria, inseguire il titolo NBA e sfoderare una prestazione incisiva, grazie anche a un fisico per la cui “manutenzione” si dice spenda oltre un milione di dollari l'anno.
Ogni giorno, nella sua Akron, Ohio, allo stesso modo alcune centinaia di bambini e ragazzi provenienti da situazioni difficili si alzeranno e andranno a lezione in un edificio ristrutturato che dal 2018 è sede della I Promise School. La scuola pubblica voluta e supportata da LeBron, dove è iniziato il quinto anno scolastico. Ciascuno di loro è tenuto a osservare un particolare manifesto, che tradotto recita così:
Io prometto
di andare a scuola
di fare tutti i miei compiti
di ascoltare i miei insegnanti, perché mi aiuteranno ad apprendere
di non arrendermi mai, in ogni caso
di dare sempre il massimo
di aiutare e rispettare gli altri
di condurre una vita sana e attiva, mangiando correttamente
di fare buone scelte per me
di divertirmi
e soprattutto di finire la scuola.
Perché in certi posti degli Stati Uniti non è affatto scontato che un ragazzino faccia tutte queste cose, o che ci sia qualcuno che si accerti che le faccia. LeBron James – ufficialmente è il vice preside della fidata Brandi Davis – lo considera il progetto più importante della sua vita: investire nell'istruzione per evitare a più bambini possibile quello che ha vissuto lui alla loro età, sballottato da una casa all'altra, marinando spesso la scuola, dal momento che a nessuno importava se ci andasse o no. Solo con l'educazione e uno stile di vita salutare è possibile costruire un futuro migliore e una società più giusta.
Cinque anni fa, grazie alla collaborazione tra LeBron e il sistema della pubblica istruzione di Akron, l’istituto si è concretizzato nel giro di pochi mesi. È il culmine delle attività filantropiche iniziate nel 2004 con la LeBron James Family Foundation e con il programma di sostegno allo studio I Promise, già attivo dal 2011, di cui hanno finora beneficiato oltre 1400 studenti.
La I Promise School provvede a fornire gratuitamente agli alunni i migliori comfort, dalle uniformi al trasporto, dalla mensa a ogni tipo di struttura didattica e ricreativa, fino a garantire una borsa di studio nelle università della zona per i diplomati. Sono coinvolte le famiglie, spesso disagiate, attraverso corsi di completamento degli studi e programmi di inserimento lavorativo per i genitori ed è stato aperto anche un community center – in America è una sorta di luogo pubblico per incontri e attività sociali e culturali – a tutto vantaggio della città di Akron.
L'intero progetto è basato sulla profonda connessione tra LeBron e la comunità nella quale è cresciuto. Ha usato l’influenza e le risorse di cui dispone per restituire qualcosa d'importante alla sua gente.
È chiaro che tutto ciò non sarebbe stato possibile senza gli enormi ricavi di una superstar NBA. Ma non lo sarebbe stato nemmeno se tale superstar non avesse avuto una visione nitida di come costruire non solo la scuola, ma quello che oggi va sempre più configurandosi come un vero e proprio “impero”, o meglio “regno”, visto che lui è il Re.
Due recenti monografie italiane su di lui, King di Davide Chinellato e LeBron James. Il ritorno del re di Davide Piasentini, entrambi firme de La Gazzetta dello Sport, delineano in modo piuttosto esauriente il LeBron imprenditore.
È un uomo d'affari che esige coinvolgimento diretto sia nei suoi business che nelle attività solidali e pretende molto da chi lavora con lui, studenti compresi. Non è un caso che del suo team più stretto facciano parte solo poche persone di estrema fiducia, su tutte Maverick Carter, compagno di scuola e amico di lunga data (è il suo principale socio in affari) e l'attuale agente Rich Paul, che LeBron ha praticamente creato.
Scrive Chinellato:
Aveva deciso di non dare loro soldi, di non metterli in condizione di vivere alla sua ombra, di riflesso al suo successo. Voleva che brillassero di luce propria, che trovassero il proprio posto all'interno del regno di LeBron grazie alle loro capacità e a quello che potevano fare, non semplicemente perché lui li pagava. [...] LeBron vuole fare lo stesso con i bambini di Akron: l'idea non è solo quella di mettere a disposizione soldi per farli studiare, ma di creare le condizioni migliori perché possano farlo, di eliminare tutti gli ostacoli che vivere in un posto come Akron può mettere davanti.
Infatti un altro dei suoi motti è: Earned, not given. Niente è regalato, ogni traguardo si conquista con il duro lavoro e con il gioco di squadra.
La mentalità del Re è evidentissima: puntare al top in tutto quel che fa. In campo, vincere e competere per il massimo risultato. Fuori, guadagnare il più possibile, anche grazie ai progressi e alle vittorie sul parquet, attraverso scelte opportune e lungimiranti. Non tanto per il gusto di accumulare denaro – un po' sì, dai, basta che guardi le sue ville… – ma per investire quei soldi costruendo qualcosa che lasci il segno e abbia un impatto globale sulla società.
Scrive Piasentini:
Un businessman come se ne sono visti pochi nella storia dello sport professionistico americano, precursore audace ed imprenditore di sé stesso. […] Ha fatto della consapevolezza nei suoi mezzi e della voglia di comprendere e conoscere il basket più di se stesso la sua grande forza. Non esiste colloquio individuale, trattativa commerciale o partita in cui non si sia preparato minuziosamente per affrontare al meglio l'impegno.
Fin da adolescente, con grande maturità e responsabilità, aveva ben chiaro in testa chi sarebbe diventato: uno dei giocatori più forti di sempre, fonte di ispirazione per milioni di persone.
È lui che in sostanza ha introdotto il concetto di atleta-azienda e, grazie agli effetti a lungo termine di The Decision (lo show con cui nel 2010 annunciò il trasferimento a Miami), antitetici a quelli immediati abbastanza disastrosi dal punto di vista mediatico, ha aperto la strada al potere dei giocatori NBA di decidere autonomamente del proprio futuro, con tutti i pro e contro della situazione.
Infatti, sia ben chiaro, come ogni persona anche LeBron ha i suoi lati oscuri e contraddizioni.
Ad esempio quando nel 2019 per ragioni puramente economiche prese le parti della Cina, paese dove non c'è libertà di pensiero, dopo le dichiarazioni pro Hong Kong di Daryl Morey, nonostante LeBron, in tema di diritti civili e uguaglianza, fosse uno dei maggiori sostenitori del movimento Black Lives Matter e uno dei più strenui oppositori di Donald Trump.
Oppure, limitandoci al basket, il fatto che si dica abbia potere assoluto sulle scelte di mercato - i Lakers di oggi sono praticamente controllati da lui tramite Rich Paul - e sul destino di un allenatore, pur avendo incassato magri risultati in tale ruolo da “general manager di fatto” come le ultime stagioni a L.A., fatta eccezione per il particolare titolo 2020 nella bolla di Orlando, hanno sentenziato.
Tuttavia anche questi episodi vanno interpretati nel quadro generale del personaggio, evitando di decontestualizzare le singole situazioni.
Se al momento ti sfuggissero, ti faccio un breve riepilogo dei suoi interessi imprenditoriali.
LeBron è innanzitutto un uomo Nike, a cui è legato a vita. Poi, è socio di minoranza del Fenway Sports Group, proprietario di Liverpool FC, Pittsburgh Penguins (NHL) e Boston Red Sox (MLB). Con Maverick Carter possiede la SpringHill Company, società di produzione multimediale che include la piattaforma Uninterrupted e ha prodotto i film Space Jam. A new legacy – in cui LeBron è l’attore protagonista – e Hustle, oltre a format televisivi, documentari, podcast con cui vuole ispirare la gente e dar voce alle storie che abbiano un'influenza sulla società.
LMRM Ventures, fondata nel 2006 con i suoi amici, è la personale società di marketing di LeBron. È coinvolto a pieno titolo in business quali Ladder, brand di integratori sportivi tra i cui fondatori c'è Arnold Schwarzenegger, e Blaze Pizza. Ha lanciato le cuffie Beats by Dr. Dre, vendute ad Apple per una cifra astronomica. Oltre a Nike, è testimonial di brand come AT&T, Walmart, GMC, 2K, Chase, Upper Deck e molti altri (trovi tutto sul suo sito).
Cosa gli manca? L'ambizione è diventare proprietario di una franchigia NBA, sogno che potrebbe coronare a Las Vegas, probabilissima sede di una futura franchigia (come avevo spiegato qui). In tal modo, LeBron James emulerebbe ancor di più Michael Jordan, per il quale ha sempre avuto una forte fascinazione: protagonista di Space Jam e owner di un club (MJ detiene gli Charlotte Hornets).
Vedo invece più difficile, nonostante l’impegno sociale e il suo carisma da leader, un futuro in politica, con più di qualcuno che lo vorrebbe addirittura candidato alla Casa Bianca. Ma puoi star certo che, nel caso si verificasse l’opportunità, James si preparerebbe al meglio anche per questa sfida. Intanto il ragazzo di Akron si appresta a continuare il suo regno in NBA, a essere un’icona contemporanea e ad avere una gigantesca influenza su un’infinità di gente, in tutto il mondo: sono vent’anni che lo fa, ed è ancora giovane. Lunga vita al Re.
La NBA fa '90
Da quando, nel 2017, Nike è tornata a fornire le divise ufficiali delle squadre NBA, c'è stata un'evidente accelerazione e sistematizzazione dello sviluppo di jersey in dotazione a ogni franchigia. Oggi sono almeno quattro o cinque, da indossare nel corso della stagione, secondo un preciso piano marketing. La principale novità è stata l'introduzione delle City Edition – tra le quali ogni anno mi diverto a selezionare le dieci più belle – ma a far brillare le pupille ai fan sono soprattutto le Classic Edition, cioè la riproposizione delle maglie del passato.
Nelle ultime stagioni più squadre hanno sfoggiato uniformi ispirate a un decennio la cui nostalgia sta andando per la maggiore: gli anni ‘90. Sulla divisa dei Toronto Raptors è ricomparso il dinosauro che aveva salutato il debutto della franchigia canadese; gli Utah Jazz hanno rispolverato la canotta con la montagna con cui arrivarono due volte alle Finals; gli Indiana Pacers l'elegante pinstriped che fu di Reggie Miller e Rik Smits; i Brooklyn Nets il completo celeste dall'aspetto lucido, con bordi rossi e bianchi, del 1990-91, quando erano ancora i New Jersey Nets; i Cleveland Cavaliers il nero-azzurro-arancione con il logo “WordArt” dell'era pre-LeBron; i Dallas Mavericks il verde con il cappello da cowboy; i Memphis Grizzlies addirittura le divise turchesi degli sfigatissimi Vancouver Grizzlies.
Anche nelle Classic Edition 2022-23, tra quelle finora svelate, c'è una cospicua rappresentanza dei Nineties.
Il throwback più interessante mi sembra quello dei Detroit Pistons, che reintroducono la divisa teal, cioè color foglia di tè, una sorta di verde acqua scuro che in realtà nella scala dei colori è una variante di blu. Oltre alla particolare cromatura, affiancata da bordi ed elementi neri, gialli e rossi, è tornato il logo con la testa di cavallo dalla criniera infuocata, simbolo della potenza dei motori. Queste maglie furono indossate da Grant Hill e Jerry Stackhouse e per una stagione anche da Ben Wallace, prima del ritorno al classico rosso-blu.
I Phoenix Suns celebrano i trent'anni delle finali NBA del 1993, perse con i Chicago Bulls di Michael Jordan, ripresentando la vistosa divisa viola e arancione di quel periodo, vestita da Charles Barkley, Kevin Johnson e “Thunder” Dan Majerle. Un design esuberante e un po' ingenuo, caratteristico del decennio, con quel sole il cui nucleo è una palla da basket e i raggi che attraversano il petto.
Rivedremo in viola anche i Milwaukee Bucks, con la Classic Edition ispirata agli anni 1994-2006, durante i quali Sam Cassell, Ray Allen e Glenn Robinson trascinarono la squadra alla finale di conference 2001, persa con i Sixers di Allen Iverson.
E poi ci sono i Golden State Warriors: per loro ecco l’uniforme che richiama l'epoca dei Run TMC (1989-1997), il trio composto da Tim Hardaway, Mitch Richmond e Chris Mullin fautore, con coach Don Nelson, di un gioco veloce e spumeggiante che avrebbe fatto scuola. I campioni in carica hanno persino chiamato lo stesso Mullin come testimonial per il lancio della Classic Edition che vedremo presto indossare da Steph Curry, Klay Thompson e Draymond Green.
Verso la “Coppa NBA”?
C’è una notizia di pochi giorni fa riguardante il basket italiano: la Final Eight di Coppa Italia, una delle formule più riuscite della nostra pallacanestro da vent'anni a questa parte, si sposterà per l'edizione 2023 da Pesaro a Torino, dove era stata già ospitata nel 2011 e nel 2012.
In questo numero di Galis ti parlo in primis di NBA, quindi ne prendo solo spunto per una considerazione: il modello della coppa nazionale, trofeo parallelo al normale campionato e che appartiene alla cultura sportiva europea, evidentemente ha fatto breccia anche al di là dell’Atlantico, dove non è mai esistito niente di simile. Una volta lessi in un articolo che un allenatore o un dirigente di club italiano affermava che far capire a un giocatore americano il concetto di promozione e retrocessione era già difficile, figurarsi quello di Coppa Italia. Ora, invece, i due mondi sono più vicini di quanto si pensi.
Da un po’ di tempo, infatti, la NBA sta pianificando l’introduzione di un torneo interno alla stagione (in-season tournament) che, almeno in principio, sembrava dovesse essere proprio una Final Eight. Questa “NBA Cup” (nome assolutamente ipotetico) avrebbe però comportato l’interruzione della regular season per qualche giorno. Una pausa in più, quindi, oltre a quella dell’All-Star Weekend. E quindi sarebbe stato necessario ridurre il numero di partite: si era parlato di passare da 82 a 78. Un aspetto che, se da un lato (giocatori e allenatori) avrebbe anche potuto incontrare pareri favorevoli, dal punto di vista del business una serie di fattori (incassi, diritti tv ecc.) avrebbe reso questa strada non percorribile.
Stando alle ultime news di poche settimane fa, la situazione è questa: il torneo si farà, ma in maniera differente e per certi versi unica. Alcune partite di regular season saranno contrassegnate come cup games. Cioè saranno valide sia per il campionato sia per una parallela classifica “di coppa”. Dopo un determinato periodo, le migliori otto squadre si qualificheranno a una sorta di Final Eight “diffusa”, con quarti di finale e semifinali a eliminazione diretta, sempre però all’interno del calendario di regular season. Le due finaliste, invece, si affronteranno in una partita extra. E quindi per loro la stagione sarà di 83 partite anziché 82: in pratica, la NBA finirà per aumentare le gare anziché diminuirle. Cosa tra l’altro già fatta con i play-in, introdotti nella stagione 2019-20 e poi diventati definitivi.
Di tutto questo non c’è ancora ufficialità. La partenza è teorizzata nel 2023-24, oppure nel 2024-25, una volta rinnovato il contratto collettivo. Adam Silver, che per tale idea ha affermato di essersi davvero ispirato allo sport europeo, finora ha dimostrato di non perdere troppo tempo quando c’è da inserire novità, quindi qualcosa aspettiamoci di sicuro.
Inoltre, la lega sta già sperimentando soluzioni simili nella WNBA, dove da due anni si disputa la WNBA Commissioner’s Cup, e in G League, la cui stagione regolare da 50 partite è addirittura suddivisa nella Showcase Cup (novembre e dicembre) che occupa le prime 18 e nella regular season vera e propria con le rimanenti 32. Insomma, al di là del lato economico, a quanto pare anche nello sport USA si vuol offrire alle squadre la possibilità di competere per più di un titolo a stagione.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Riprendo questa rubrica da dove l'avevo lasciata: i documentari. È in atto un’intensa proliferazione di produzioni sul basket e per primo ti consiglio Kobe. Una storia italiana su Prime Video (se sei abbonato, guardalo qui). Un omaggio al legame tra Bryant e l'Italia, un emozionante viaggio attraverso Rieti, Reggio Calabria, Reggio Emilia, Pistoia, con le testimonianze di chi ha conosciuto il Kobe bambino. Ti condivido uno dei due brani inediti della soundtrack - Infallibile - che ho gradito molto, composto da Matteo Curallo e cantato dal rapper Danomay.
Sempre su Prime Video mi sono visto Pau Gasol. L'importante è il viaggio. Assolutamente interessante: la mia recensione qui.
A proposito, ancora su Prime Video, adesso che la Spagna è di nuovo campione d'Europa devi vedere La Familia, docuserie su ascesa e trionfi della Selecciòn.
La Giornata Tipo ha curato, per conto della NBA, il documentario su Bologna nella serie Hoop Cities. Lo puoi vedere su League Pass (solo abbonati, ma ci sono 7 giorni di prova gratuita).
A dieci anni di distanza, arriva un doc sulla Linsanity, l'incredibile momento di popolarità di Jeremy Lin in maglia New York Knicks. Si intitola 38 at the Garden (come i punti che segnò in una memorabile vittoria sui Lakers), è prodotto da HBO e vuole mettere in risalto l'importanza della comunità asio-americana. Al momento è disponibile solo in USA.
WhatsApp, novità assoluta, ha prodotto un cortometraggio su Giannis Antetokounmpo, global ambassador dell’app di messaggistica. Si intitola Naija Odyssey ed eccolo qui.
I playground riqualificati dal gruppo Armani a Milano: eccoli qui su Rivista Undici.
Cosa c'è dietro le KD15, le nuove Nike di Kevin Durant? Max Resetar ne parla su SLAM (in inglese).
E queste sono le LFC Nike LeBron 9 Low nella versione brandizzata Liverpool FC.
Ora puoi personalizzare il pallone Wilson con il tuo logo. Figo, ma costa un po'.
Abramo Canka, il genovese da quest'anno a UCLA, racconta la sua vita a Los Angeles a Il Secolo XIX: l’articolo qui.
Paolo Mutarelli di BasketballNcaa.com ci porta attraverso i tour estivi delle squadre di college.
Mi piacciono un sacco le illustrazioni minimal di Elias Stein (qui e qui).
Sentito parlare del progetto artistico NBA Creator Series? Vedilo sul mio blog.
Ed ecco l’intervista di Alessandro Rosi de Il Messaggero a Francesco Persichella, in arte Piskv, autore del murale di Roma dedicato a Valerio D’Angelo: leggila qui.
È morto a 34 anni Jonathan Tjarks, giornalista di The Ringer. Se segui i media sportivi americani, forse hai letto qualche suo pezzo, come questo (in inglese) in cui raccontava la sua malattia.
E ora concludo parlando di libri. Tanti libri.
Riccardo Pittis, di cui è appena uscita l'autobiografia Lasciatemi perdere (Roi Edizioni), si racconta tra basket e mental coaching, sua attuale attività, in una intervista a Pietro Razzini per La Gazzetta dello Sport.
NBA Confidential, dal 18 ottobre, è il nuovo libro di Riccardo Pratesi, ricco di viaggi e interviste del giornalista della Rosea. Esce il 18 ottobre per Diarkos: pre-ordinalo qui.
Senza filtro è l'autobiografia di Kevin Garnett (Pienogiorno).
L'uomo che raccontava il basket di Sergio Tavcar (Bottega Errante): la pallacanestro della ex Jugoslavia narrata da un personaggio storico e particolare del giornalismo sportivo.
Giannis Antetokounmpo, Odissea di Andrea Cassini (66thand2nd): il viaggio straordinario di uno dei giocatori simbolo del basket di oggi.
Isabella Ferretti, fondatrice di 66thand2nd, tratta di libri e sport in questa intervista a Sonia Folin per Maremosso, il magazine delle librerie Feltrinelli.
Da zero a 305 (Ultra) è il manuale tecnico per schiacciare a canestro di Luca Moscatelli, chinesiologo specializzato in salto ed elevazione e giocatore di basket.
Ultima su Antetokounmpo: a fine agosto è uscita la traduzione italiana di Giannis di Mirin Fader (Add editore), un’opera biografica super approfondita firmata da una delle penne più brillanti dello sport USA (lei è questa).
Di tutti questi volumi potrai leggere man mano le mie recensioni su Never Ending Season, come quella di Sonics di Davide Torelli.
Conclusioni
Ed eccoci qua alla fine di questo numero 21 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter.
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È tutto, ci vediamo il 31 ottobre. Ciao e buona NBA!