Da Galis a Giannis
#20 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi la Grecia ieri e oggi, il pallone Molten e una reporter in ascesa
Ciao, se per te gli anni in cui si giocano gli europei sono un po' più belli degli altri, allora ci siamo capiti.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il ventesimo numero di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
Nell'ultima uscita (se l'hai persa, te la rimetto qui) ho scritto di come era il basket quaranta anni fa, di tornei estivi top quali Drew League e Quai 54 e della G League che ha messo radici a Las Vegas.
Domani, 1 settembre, inizia appunto il campionato europeo, quarantunesima edizione. L'Italia torna a essere paese ospitante, seppur insieme a Georgia, Germania e Repubblica Ceca. Una cosa che, comunque, non succedeva da trentuno anni, cioè da quando Roma fu teatro dell'edizione 1991.
A Milano, sede di uno dei quattro gironi, sono di casa ovviamente gli azzurri di coach Pozzecco, ma anche una delle squadre più attese: la Grecia, che affronteremo il 3 settembre in un Forum sold out. E proprio di Grecia tratterò in una delle storie di oggi.
Prima, però, dai un'occhiata all'immagine qui sotto.
Sorprendente, vero? È la cover di un libro che credo, ormai, sia un pezzo da collezione. Non ricordo neppure dove e quando l’abbia acquistato. L'autore è Mario Arceri, storica firma di pallacanestro, e stando a quanto c'è scritto nell'ultima pagina è stato chiuso in tipografia il 31 maggio 1999, una ventina di giorni prima che iniziassero gli europei di Francia. Quelli in cui l'Italia, per l'ultima volta, avrebbe vinto la medaglia d'oro.
Il volume ripercorre la storia della competizione dal suo anno d'esordio, il 1935, fino alla vigilia dell'edizione 1999. La finale di Parigi, secondo l'autore, chiudeva idealmente, a fine secolo, il cerchio di una storia che aveva visto disputarsi nella capitale francese la prima partita di basket mai giocata nel Vecchio Continente. Quando? Nel 1898, appena sette anni dopo l'invenzione di James Naismith. EuroBasket presenta risultati, tabellini e classifiche di tutte le edizioni, ciascuna introdotta da un breve racconto testuale.
Nel 1999 il commissario tecnico della nazionale era Boscia Tanjevic, alla guida di una squadra in cui spiccavano, tra gli altri, Carlton Myers, Gregor Fucka, Andrea Meneghin, Alessandro Abbio, Denis Marconato. Ma non l'uomo ritratto sulla copertina del libro: esatto, Gianmarco Pozzecco. I rapporti tra lui e Tanjevic non erano proprio idilliaci. Successe allora che il Poz venne tagliato ai primi di giugno, quindi pochi giorni dopo l'uscita dell'opera di Arceri.
La scelta del Poz come uomo-copertina era del tutto giustificabile: reduce dall’esaltante scudetto vinto con Varese, che lo aveva reso uno dei giocatori più entusiasmanti e amati d'Italia, era davvero difficile ipotizzare una separazione in azzurro dal “gemello” Meneghin. Il risultato finale diede tuttavia ragione a Tanjevic, mentre Pozzecco avrà modo di rifarsi qualche anno più tardi, agli ordini di Carlo Recalcati, battendo gli Stati Uniti delle star NBA nella “mitica” amichevole di Colonia e poi conquistando l'argento ai Giochi di Atene 2004.
Oggi, ventitré anni dopo la dolorosa esclusione da quel roster che si laureò campione d'Europa senza di lui, a cui si aggiunse anche la mancata convocazione per gli europei 2003 in cui l’Italia conquistò uno splendido bronzo, il Poz prova a prendersi una nuova rivincita da CT della nazionale.
Una storia greca, anzi due
Ma non ti avevo detto che avrei parlato di Grecia? Certo. È grazie alle pagine del libro di cui sopra, infatti, che vari anni fa appresi dello storico oro europeo della nazionale ellenica nel 1987. E del suo simbolo indiscusso: Nikos Galis. Conoscere quella vicenda, di cui fino ad allora sapevo poco, è stato importante per me. Era il 2015, da qualche anno trascorrevo un periodo quasi del tutto lontano dal basket, dopo la fine della mia “carriera” da anonimo giocatore nelle minors laziali e dopo un decennio in cui avevo fatto gavetta seguendo le squadre della mia città per quotidiani e testate locali.
È stato grazie a Galis e alla Grecia ‘87 che mi è tornata la voglia di scrivere di pallacanestro. Il potere mitologico di quell'impresa, di una squadra che pur giocando in casa con un fortissimo fattore campo arrivò prima contro ogni pronostico scatenando la passione di un paese intero, valse il post sul mio blog – eccolo – diventato in seguito il primo capitolo del mio libro Il parquet lucido (a proposito, ha compiuto due anni, se vuoi acquistalo qui). Scrissi questo lungo pezzo con grande coinvolgimento emotivo, ulteriormente accresciuto dalle immagini integrali e un po' sgranate – ah, il fascino della tv anni Ottanta… – di quelle partite andate in scena nell'inferno del Pireo e reperibili su YouTube.
E poi ho dato a questa newsletter il nome Galis. Se ti sei sintonizzato con me soltanto ora, come amano ripetere i radiocronisti, ti spiego perché l'ho chiamata così, come avevo già fatto nel primo numero.
Cercavo un nome semplice da pronunciare, capire, scrivere, leggere, che fosse anche un po' ricercato e vintage, ed esprimesse qualcosa di particolare legato alla pallacanestro. Che fosse un buon nome da newsletter, insomma.
Da tempo avevo in testa Galis. Suonava bene. Quando lui giocava ero troppo piccolo, non ne ho un ricordo diretto, quindi non posso dire che sia stato un mio “idolo”: però il fatto di averlo scoperto tardi e che mi avesse infervorato così tanto, mi tolse ogni dubbio. Inoltre, i contenuti su Galis, inteso come Nikos, che si trovano sul web non sono illimitati e questo aspetto, tra l'altro, offre la misura di quanto trent'anni fa la sovraesposizione mediatica fosse una cosa ancora lontanissima. L'esatto opposto di oggi, che abbiamo sotto gli occhi con un altro greco, diverso da Galis ogni oltre immaginazione: il suo nome è Giannis Antetokounmpo e tra poco ti parlo anche di lui.
Galis e Giannis esprimono, nel basket e non solo, la Grecia di ieri e di oggi. Anche per il loro aspetto fisico, non potrebbero rappresentare due epoche più distanti tra loro, nonostante gli appena tre-quattro decenni che le separano. Ma sono due personaggi che raccontano in modo estremamente interessante una nazione che, per il suo antico passato e il suo particolare presente, difficilmente ti lascia indifferente quando vi emerge qualcosa di insolito.
Galis è gli anni Ottanta. Un'altra pallacanestro e un altro mondo. Basti pensare che gli avversari dei greci nella semifinale e nella finale del 1987 sono Jugoslavia e Unione Sovietica. Una Grecia appena entrata nell'allora Comunità Europea, ma ancora povera e marginale, trovò nella palla a spicchi una profonda identità di popolo. Riguardando quelle gare, salta all'occhio l'aspetto semplice del basket di allora: divise dozzinali, pantaloncini corti e calzettoni al ginocchio, nessun tatuaggio, ritmi che appaiono lenti e compassati se paragonati a quelli odierni.
Nonostante ciò, il gioco di Nikos era in realtà una complessa e intensa sinfonia che solo lui era in grado di suonare. Un playmaker cerebrale che praticamente non veniva mai sostituito, viveva il basket con totale trasporto e in esso, grazie ai movimenti, al senso di posizione e alla forza delle gambe, riusciva a eludere l'ombra di lunghi molto più alti e grossi di lui, segnando da sotto canestro con inaudita facilità e con un personalissimo campionario di parabole siderali e tentacolari evoluzioni di braccia.
Antetokounmpo, invece, è il nuovo millennio, in tutto e per tutto. Dal punto di vista cestistico, è un giocatore alto 2,11 che porta palla (se avesse un po’ più di tiro da tre e sbagliasse meno tiri liberi diventerebbe davvero un incubo per chiunque). Un ragazzo con nome e cognome greco, e greco di madrelingua, nonostante le sembianze africane. Ma a essere profondamente radicato nel XXI secolo è ciò che Giannis rappresenta: incarna tre culture di tre continenti – Africa (Nigeria), Europa (Grecia), America (USA) – ed è un simbolo del mondo globalizzato.
La sua vicenda familiare di immigrato, per anni irregolare, pone inoltre una delle questioni più delicate e, purtroppo, strumentalizzate di oggi. La sua storia è straordinaria, degna di essere conosciuta, ma senza esaltazioni né banalizzazioni: è semplicemente figlia dei nostri tempi. E Giannis, a lungo costretto a nascondersi con i genitori e i fratelli perché privo di cittadinanza, paradossalmente si è trasformato in un personaggio sovraesposto, malgrado il suo carattere umile e operaio: documentari, libri, articoli e ora anche il film recitato Rise, prodotto dalla Disney (qui la mia recensione). Il prezzo da pagare per un giovane del 1994 diventato grande proprio mentre web, social e tecnologia rivoluzionavano per sempre le abitudini di informarci e comunicare.
Galis e Giannis, tuttavia, hanno anche un considerevole punto in comune: entrambi hanno vissuto, seppur in maniera totalmente differente o per meglio dire speculare, una condizione di immigrati.
Nikos, che oggi ha sessantacinque anni, è nato in New Jersey da genitori greci e soltanto dopo l'università, sfumata la possibilità di andare in NBA, ha varcato l'oceano per giocare nella terra di suo padre e di sua madre, diventando ellenico al cento per cento. Antetokounmpo, invece, è nato e cresciuto ad Atene da genitori nigeriani e poi è “emigrato” negli Stati Uniti dopo essere stato scelto dalla NBA.
Però entrambi, da ragazzi, hanno lottato per emergere: Nikos nelle dure periferie dell'area metropolitana newyorchese e Giannis sul cemento di Sepolia e sulle strade dove vendeva borse e occhiali per aiutare la famiglia. Poi, hanno superato l'Atlantico in senso opposto per affermarsi in un continente che non era il proprio. E tutti e due, con il loro successo, hanno rivestito un importante ruolo di rivitalizzazione per un paese o una città. L'impresa di Galis campione d'Europa 1987 e in parte il dominio a livello di club con l'Aris Salonicco hanno messo la Grecia sulla mappa del basket che conta: la pallacanestro era arrivata lì nel 1910 ma, a parte brevi frangenti, non aveva mai vissuto uno sviluppo durevole ad alto livello.
Giannis, invece, ha di fatto salvato Milwaukee da un perdurante declino. I Bucks, fino al suo arrivo, erano una delle franchigie a più alto rischio trasferimento e anche la città del Wisconsin non era esattamente un posto gradevole. Invece, l'interesse scaturito dall'ascesa di “The Greek Freak” ha di fatto immesso nuova linfa, favorendo la costruzione di un’arena al passo con i tempi, il Fiserv Forum, che ha restituito vitalità alla zona creando economia e posti di lavoro.
L'hanno chiamato The Giannis Effect e l’enorme attesa nei suoi confronti è diventata globale, come vedremo tra pochi giorni a Milano. Sul parquet, Giannis ha spesso incontrato difficoltà con la Grecia, ma oggi si appresta a giocare un campionato europeo, se non da favorito, almeno da sicuro protagonista. La stessa competizione che il suo connazionale Nikos Galis, trentacinque anni fa, fece interamente sua scrivendo la storia del basket e di una nazione.
Da Hiroshima agli europei
Oltre a Spalding e Wilson – di cui tempo addietro ho riassunto la storia qui e qui – l'altro brand di palloni da basket più noto a praticanti e appassionati è certamente Molten, da una ventina d'anni fornitore ufficiale delle “arance” della massima serie italiana e, dalla stagione entrante, anche dei campionati afferenti alla Lega Nazionale Pallacanestro (serie A2 e B). A livello internazionale, il rapporto con la FIBA dura da quarant’anni e il pallone ufficiale di Eurobasket 2022 è un Molten BG5000 su cui sono riproposti i motivi grafici del logo della manifestazione, ispirati alle icone digitali.
Nel design dei suoi palloni, Molten ha introdotto un evidente tratto distintivo: le fasce bianche, che hanno fatto passare in secondo piano le classiche e più sottili linee nere delimitanti gli spicchi. Tale soluzione ha reso la sfera più visibile dal punto di vista televisivo ma, a mio avviso, le ha dato anche una percezione di movimento più lento e pesante. Io continuo a preferire la classica palla da basket interamente arancione o marrone con le righine nere, quella tradizionale, come in NBA per intenderci. Ma sono miei gusti o sensazioni, niente di più.
Molten, quindi. Sai qualcosa su questo marchio? Ho fatto qualche ricerca. Innanzitutto, non è nato negli Stati Uniti come Spalding e Wilson ma è giapponese. L'azienda è stata fondata nel 1958 da Kiyoshi Nobori in una città che, non molto prima, non era uscita benissimo dalla seconda guerra mondiale: Hiroshima. La nascita di Molten, quindi, si inserisce pienamente nel clima di ricostruzione in cui il paese del Sol Levante si risollevò in modi e tempi stupefacenti, dimostrando presto di poter fare a meno della “guida” degli americani rimasti a controllare la situazione per svariati anni. Già nel 1949, ad esempio, era nata la Onitsuka, che produceva scarpe da basket, nonostante non fosse certo lo sport più popolare, e soprattutto da atletica: le famose Tiger che un giovane americano di nome Phil Knight, negli anni Sessanta, cominciò a importare negli USA dando vita alla Blue Ribbon Sports, diventata poi Nike. Onitsuka, invece, confluì in un altro brand che tutti conosciamo: Asics.
Tornando a Molten, l'impresa era attiva nella produzione di attrezzature sportive e di componenti in gomma per automobili. Appena sei anni dopo la sua fondazione, ai Giochi Olimpici di Tokyo 1964 i tornei di pallacanestro, pallavolo e calcio hanno un pallone ufficiale firmato Molten. Nel 1983 viene aperta la sede americana, a Reno, Nevada. Oggi l'azienda conta 3900 impiegati ed è presieduta da Kiyo Tamiaki.
Ti tolgo la curiosità sul nome, nel caso te lo fossi chiesto. Molten è un termine non nipponico ma inglese. Ed è un participio passato antiquato del verbo to melt, che significa dissolvere, fondere, far confluire e anche, in senso lato, passare da cose vecchie a cose nuove. Quindi è una scelta che rispecchia pienamente lo spirito di rinascita del dopoguerra. Oggi come participio passato di to melt – hai presente la colonna destra della tabella dei verbi irregolari che dobbiamo imparare a ogni corso d'inglese? – si usa principalmente la forma regolare melted, mentre l’irregolare molten è talvolta mantenuto nel suo significato letterale: colato, fuso, sciolto, in stretta relazione al metallo incandescente liquefatto dal calore. Che dire… hot!
Gaia Inter
Da qualche tempo l'Inter – la mia Inter! – ha un nuovo volto sui social e sui video ufficiali nerazzurri: Gaia Accoto. Ed è un volto noto agli appassionati di basket, soprattutto italiano. Infatti, la reporter, conduttrice, presentatrice e content creator, classe 1992, lombarda di origini salentine, proviene da quattro anni a servizio della LBA, più un periodo a Eurosport, prima di passare all'Inter con cui già collaborava da alcuni mesi.
In un suo recente post su Instagram – dove conta oltre 30.000 follower – durante le finali scudetto ha scritto:
Questo è lo sport per me: gioia, dolore, sacrificio, spettacolo, condivisione, avventura, tradizione.
Preparata, bella, un passato da giocatrice di pallavolo e modella, Gaia è una professionista tenace e versatile che si è costruita il proprio lavoro, unendo sport e intrattenimento e raccontando il tutto con competenza e leggerezza, per raggiungere un pubblico non di soli addetti ai lavori e portando il basket fuori dal campo. Durante l'estate l'abbiamo vista anche alla Summer League NBA, un palcoscenico e un banco di prova di assoluto prestigio, dove è inoltre apparsa sugli schermi del Thomas & Mack Center di Las Vegas e sui canali social della lega indossando le maglie del torneo.
Ora la sfida, già in atto dallo scorso dicembre, nel mondo del calcio e in un club di respiro mondiale come l’Inter. Non la conosco di persona, ma da quanto ho appreso dal suo lavoro e dalle sue parole, c’è da star certi che Gaia cercherà di raggiungere nuovi e importanti traguardi, restando sempre se stessa, come ama ripetere nelle interviste quando le capita di trovarsi dall'altra parte del microfono. Ad esempio, in questa puntata del podcast Mike Check di Tommaso Marino e Massimiliano Giudici, puoi ascoltare molto su cosa fa e sul suo approccio alla professione.
Gaia Accoto ha iniziato dal basso, facendo telecronache e interviste a bordo campo con il Legnano basket in A2, e man mano imparando il mestiere e l’inglese da sola e anche producendosi in proprio i suoi video. Cresciuta in una famiglia di sportivi, ha avuto esperienze in varie discipline, tra cui la pallanuoto, dove ha fatto parte dell’area comunicazione del club più titolato d’Italia, la Pro Recco. Ad maiora, Gaia!
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
C’è tanta roba, questo mese. Iniziamo con la filosofia di Gianmarco Pozzecco nell'intervista a Umberto Zapelloni de Il Foglio, qui.
Michele Pettene ha invece intervistato Ettore Messina per Esquire. E come sempre le parole del coach meritano un'attenta lettura.
Olimpia Milano e Intesa Sanpaolo hanno realizzato Tale of a Team, un podcast in quattro puntate condotto da Alessandro Mamoli dedicato a storia e valori del club: ascoltalo qui.
Dario Vismara ci ricorda chi è stato Bill Russell, la cui maglia numero 6 è stata appena ritirata dalla NBA in tutte le squadre: leggi il pezzo su L’Ultimo Uomo.
LeBron James è davvero more than an athlete: è un'azienda milionaria. Ne parla Riccardo Pratesi su La Gazzetta dello Sport (solo abbonati).
Sono passati trent'anni dal Dream Team di Barcellona '92: Claudio Pellecchia spiega su Rivista Undici perché ha fatto innamorare tanta gente della NBA.
Quanto valgono i cimeli di Michael Jordan? Te lo dice la gallery di Sky Sport.
Il 13 settembre esce per Einaudi Rivali. Sfide leggendarie che hanno cambiato lo sport, libro collettivo della redazione de L'Ultimo Uomo. La cover è dedicata a una rivalità molto particolare, quella tra Michael Jordan e Kobe Bryant. Che non era proprio una rivalità, ma un confronto come spirito di emulazione (per Kobe) e difesa del proprio status (per MJ). Il capitolo è anche in questo caso di Dario Vismara e il volume è pre-ordinabile qui.
Marco Marini di Backdoor Podcast scrive delle novità in NBA per la prevenzione degli infortuni, qui.
Pietro Cabrio de Il Post ricostruisce tutta la storia di Delonte West.
L'esultanza "tutti a nanna" di Steph Curry ha fatto scuola, come ricorda Massimiliano Macaluso su Outpump.
L’interessantissima conversazione di Gianluca Gazzoli con Matteo Zuretti, capo delle relazioni internazionali e marketing della NBPA (l'associazione giocatori NBA): si parla di iniziative, agilità culturale, global game, sogno americano. Da vedere qui.
Dai un'occhiata a come il collettivo queer-femminista New Craft Artists in Action - il cui acronimo è... NCAA - sta trasformando alcuni campetti dalle parti di Boston: l'articolo su SLAM è di Kevin Coval (in inglese).
Erika Annarumma di Around The Game ha selezionato i 15 più grandi scandali nella storia della NBA.
A Dayton, Ohio apre il primo ristorante Big Chicken, il nuovo franchising di Shaquille O'Neal. Ne parla qui Raghav Patel su Global Franchise (in inglese).
Questo è il pallone Wilson in edizione limitata nato dalla collaborazione tra WNBA e Arielle "Ari" Chambers, influente reporter di basket fortemente impegnata per l'uguaglianza e l'emancipazione femminile nello sport.
Il nuovo logo della Reyer Venezia in un video.
Auguri al portale NbaReligion.com, che ha compiuto dieci anni. Ho avuto il piacere di collaborarci tra 2016 e 2019, firmando questi articoli.
C'è un'antilope su un playground di Tbilisi, capitale della Georgia!
Concludo con la caterva di documentari usciti da poco o in arrivo:
The rise and fall of AND1, su Netflix per la serie Untold, narra ascesa e declino del circuito streetball che prosperò un po' di anni fa.
Sempre su Netflix e sempre per Untold, Operation Flagrant Foul è il doc sullo scandalo dell’ex arbitro NBA Tim Donaghy.
E ancora su Netflix, dal 13 settembre The Redeem Team, sull’oro USA ai Giochi di Pechino 2008. Tra i produttori due membri della spedizione: LeBron James e Dwyane Wade.
Seven sarà una docuserie su Carmelo Anthony, in lavorazione.
A Los Angeles, Veniceball ha presentato in prima mondiale il documentario Kobe's Miracle in Napoli, sul fulmineo recupero, pochi giorni dopo la sua morte, del playground di Montedonzelli dedicato al Black Mamba.
NYC Point Gods, con Kevin Durant tra i produttori, celebra i playmaker di New York da Stephon Marbury a Mark Jackson, da Kenny Smith a Rod Strickland. Presentato in USA a inizio agosto, ne parla Omari White di Andscape (in inglese). Qui puoi vedere il trailer.
Un coach come padre di Massimiliano Finazzer Flory è la storia del grande Sandro Gamba. Anteprima il 4 settembre a Milano al cinema Anteo, intanto il trailer qui.
E per finire il mini doc di Overseas su Awak Kuier, la giocatrice finlandese di origine sudanese già in cover sul primo numero del magazine. Guardalo qui.
Conclusioni
Prima dei saluti, un piccolo invito personale.
Qualche settimana fa ho diffuso gratuitamente un PDF book in cui mi racconto a cuore aperto. Ho scritto le mie idee ed esperienze, tra pensieri e ricordi di vita, giornalismo, sport, passioni. Il mio metodo, i successi ma anche errori e sconfitte, perché tutto fa crescere. L'ho fatto con sincerità, ritmo, ottimismo, scavando a fondo dentro di me: compiuti 40 anni, ho avvertito il bisogno di buttare giù un bilancio e una prospettiva futura.
Il libro si intitola E molto altro ancora e ti invito a scaricarlo e a leggerlo con calma, sono circa 70 pagine. Ovviamente c'è anche un capitolo sul basket, oltre ad accenni qua e là al nostro sport, non potevo esimermi! Fammi sapere cosa ne pensi, ci tengo molto. Questo è il link.
Ed eccoci alla fine di questo numero 20 di Galis. Spero che ti sia piaciuto e che continuerai a ricevere la newsletter.
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È tutto, ci vediamo il 30 settembre. Ciao e buon campionato europeo!