OKC Story
#54 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi Oklahoma City oltre i Thunder e lo Shootaround
Ciao, sapevi che gli occhialoni da sci che i campioni NBA indossano durante i festeggiamenti negli spogliatoi, per proteggersi dallo spumante e dai tappi sparati dappertutto, hanno un nome? Champagne goggles. Wow.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il numero 54 di Galis, la newsletter di Never Ending Season, il progetto con cui ti racconto il basket come cultura e stile di vita.
Nella scorsa uscita - se non l'hai letta, recuperala qui - ho parlato della mia seconda partecipazione alla RBR Sporteam Academy di Rimini, intense giornate di formazione sul management sportivo, e del fenomeno - sia benedetto! - delle School Cup.
Oggi siamo ancora freschi di Finals e quindi andiamo a dare un’occhiata a Oklahoma City. La vittoria dei Thunder è una pietra miliare per la città e racchiude una serie di storie interessanti che vanno ben oltre la pallacanestro.
In coda, come le altre volte, trovi lo Shootaround con i contenuti consigliati a tema basket da me raccolti nell’ultimo mese e la nuova mini rubrica Off The Ball.
E ora… champagne!
That’s OK!
Oklahoma City non è esattamente il tipo di città che finisce spesso nelle cronache. Per contare i fatti accaduti lì ed entrati negli annali, le proverbiali dita di una mano bastano e avanzano. Il primo è la fondazione, appena 136 anni fa: conosciamo persino la data, 22 aprile 1889, come vedrai più avanti. L'ultimo è il titolo NBA vinto dagli Oklahoma City Thunder, l'unica squadra a rappresentare la città nel panorama dello sport professionistico americano. E anche di questo, ovviamente, abbiamo la data, perché è successo pochi giorni fa: 22 giugno 2025.
In mezzo, a ben guardare, il solo avvenimento per cui OKC può dirsi famosa è un episodio estremamente triste: il terribile attentato del 1995 - era il 19 aprile, visto che si parlava di date - che costò la vita a 168 persone. Oggi, a trent'anni di distanza, la capitale dell'Oklahoma ha finalmente chiuso un cerchio grazie a una nuova ricorrenza, stavolta bella, all’indomani del solstizio d’estate, quando le giornate sono così lunghe che sembrano non finire mai. E lo deve alla pallacanestro.
Per il resto, come detto, la città non ha mai avuto granché di storico da raccontare. Oklahoma City si distende in the middle of nowhere, nel mezzo del nulla: un classico per molte località sperdute nelle pianure centrali. Sta un po’ più a nord di Dallas, in un territorio dove nell’Ottocento deportarono una moltitudine di popolazioni native, sradicate da altrove. Non a caso, è tuttora circondata da riserve: residui di un’epoca di colonizzazione per la quale gli USA qualche scusa da chiedere ce l'hanno.
La quotidianità, da quelle parti, al netto del terziario e delle professioni post-industriali, ruota attorno ai due pilastri dell’economia locale: petrolio e bestiame. Una specie di mini Texas, anche nelle idee politiche prevalenti, nettamente conservatrici (hai presente Okie from Muskogee, la canzone country di Merle Haggard? Parla proprio dell’Oklahoma). E così, nonostante i suoi 700.000 abitanti - che raddoppiano se si considera l’area metropolitana - OKC resta una città della profonda provincia americana, quella che ci evoca sempre un misto di fascino e smarrimento.
Forse è proprio lo sport a offrire, a certi posti, l'unica via d'uscita dall'anonimato. A regalare un diversivo, un’identità, una narrativa diversa. Quella degli Stati Uniti è una società dal passato giovane e le imprese sportive ne sono parte integrante, segnano le epoche e le vite della gente. L'Oklahoma è terra di football, certo, ma è un culto collettivo alimentato soprattutto da università e licei sparsi nelle cittadine dello stato. Il basket, invece, ha rapito il cuore della capitale. Da diciassette anni, Oklahoma City vive per i Thunder. E ora, grazie al titolo NBA 2025, ha un motivo per essere “messa sulla mappa” che non sia più solo dolore e morte.
Ore 9:02
Cosa accadde, il 19 aprile 1995? Oklahoma City fu teatro dell’attentato più devastante mai avvenuto negli States prima dell’11 settembre 2001. E proprio come a New York è stato creato lo straordinario 9/11 Memorial Museum, anche a OKC lo scenario di quel trauma è stato trasformato in un luogo della memoria e della riflessione: l’Oklahoma City National Memorial & Museum. Tra le cose positive che gli americani sanno fare bene c’è il racconto del proprio passato, anche quando è recente e doloroso. E soprattutto se ha qualcosa da insegnare a chi verrà dopo.
Alle ore 9:02 un violentissimo boato sconvolse il cuore della città: un furgone a noleggio, stipato con oltre due tonnellate di esplosivo, fu fatto saltare in aria davanti l’Alfred P. Murrah Federal Building, un palazzo governativo. La deflagrazione sventrò l'edificio, uccise 168 persone, ne ferì oltre 700 e l’onda d’urto danneggiò più di 300 strutture nel raggio di sedici isolati. Mai, fino ad allora, gli Stati Uniti avevano fatto i conti con un attentato di tale portata. Come sappiamo, non sarebbe stato l’ultimo.
Nel giro di poche ore vennero trovati e arrestati i responsabili, che da tanto lavoravano alla preparazione dell’attacco: l’ideatore Timothy McVeigh e il suo complice Terry Nichols. Entrambi veterani dell’esercito, volevano vendicarsi per due operazioni dell’FBI svolte negli anni precedenti contro la detenzione illegale di armi da parte di gruppi suprematisti bianchi ed estremisti di destra: i famigerati "assedi" di Ruby Ridge e Waco (se ti interessa approfondire, cercali su Wikipedia). Dopo un’indagine imponente e capillare, McVeigh fu condannato a morte e giustiziato nel 2001. Nichols sta tuttora scontando l’ergastolo.
Il Memorial di Oklahoma City è visitato da mezzo milione di persone ogni anno. Sorge nel punto in cui si consumò la tragedia: ridotto in macerie, il Murrah Building fu raso al suolo. Il senso di pace e di silenzio che caratterizza luoghi come questo è rinforzato dalle acque immobili della vasca centrale, la Reflecting Pool, fiancheggiata dai due Gates of Time, le “porte del tempo” che rappresentano il minuto prima e il minuto dopo l’attentato: 9:01 e 9:03. C’è anche il Survivor Tree, un olmo centenario sopravvissuto all’esplosione e divenuto simbolo della resilienza della città. Cinque anni fa, per i 25 anni del disastro, i Thunder realizzarono una divisa commemorativa.
Sull’attentato di Oklahoma City trovi molti contenuti online, tra cui un documentario Netflix. Durante le finali NBA, Sky Sport con Flavio Tranquillo ha realizzato in loco un breve ma intenso speciale, dal titolo Oklahoma Standard - espressione con cui si definisce un set di valori di solidarietà e altruismo, in nome dei quali la popolazione ha reagito all’accaduto - che estende il discorso a una profonda analisi sul terrorismo interno. Qui puoi vederne una parte, la versione integrale sta passando spesso in replica su Sky Sport NBA in questi giorni. Un’ulteriore conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, sul fatto che lo sport non si esaurisce in se stesso, ma ha infinite connessioni con la realtà che ci circonda.
Da una devastazione del genere, Oklahoma City ha colto l’occasione per rigenerare l’intera zona del centro. Se non hai pretese turistiche troppo esigenti, oggi la città offre qualche attrattiva - io non ci sono mai stato, quindi prendi queste informazioni con il beneficio d’inventario - tra cui il River Walk con locali e negozi, il quartiere di Bricktown dalla vivace vita serale, vari musei, l’avveniristica Devon Tower, a cui sembra aggrapparsi il manipolo di grattacieli di downtown, e naturalmente l’arena dei Thunder: il Paycom Center, già Chesapeake Energy Arena, e prima ancora Ford Center, inaugurato nel 2002. È proprio lì, nel cuore della rigenerata OKC, che nel 2008 ha messo radici la squadra chiamata, consapevolmente o meno, a risanare una ferita aperta, segnando un’altra milestone nella non affollatissima linea temporale della città.
A un certo punto il basket è diventato il veicolo della rinascita simbolica di Oklahoma City. Ma, compassione a parte, i Thunder non è che siano benvoluti da tutti. Dismettere una squadra amata in maniera viscerale come i Seattle SuperSonics per trapiantarla, in una nuova veste, nel cuore dell’America conservatrice, ha avuto due effetti opposti.
Da un lato, l’effetto novità ha generato un’immediata schiera di tifosi e simpatizzanti (anche in Italia), mossi pure dalla strana fascinazione per una città marginale dove “non c’è altro da fare che seguire i Thunder”. Il soprannome “Loud City” descrive perfettamente il calore in stile college che anima l’arena.
Dall’altro lato, ha cementato l’astio di chi ha vissuto l’operazione come un furto bello e buono, altro che favola, riscatto eccetera: i tanti sostenitori dei Sonics non hanno mai perdonato quello che chiamano hoop heist, la rapina a volto scoperto ai danni di una delle franchigie più seguite della NBA. Una ferita, sportiva ovviamente, che brucia ancora a nord-ovest, dove non hanno mai smesso di attendere con trepidazione il possibile ritorno della lega a Seattle. Qui, se ti va di leggerle, ci sono tutte le tappe di come se ne andò.
Come ho fatto altre volte in questa newsletter, ti richiamo alla mente un film per collegare ciò che sembra impossibile: Seattle e l’Oklahoma! Ricordi Insonnia d’amore (titolo originale Sleepless in Seattle) di Nora Ephron, con Tom Hanks e Meg Ryan?
È una commedia sentimentale del 1993 che possiamo considerare una sorta di antesignana di tutti gli amori e relazioni che di lì poco sarebbero nati via chat e social. Allora internet non c'era, perciò galeotta fu una voce in radio, ma poco cambia. A un certo punto, c’è un dialogo tra Sam Baldwin (Tom Hanks) e suo figlio Jonah (Ross Malinger) che tira in ballo proprio i due luoghi in questione:
«Caro insonne di Seattle, io vivo a Tulsa… Dov’è?»
«In Oklahoma. Lo sai dov’è l’Oklahoma?»
«In mezzo da qualche parte!»
Bingo! E così, per una strana coincidenza, oltre che nel film due posti così lontani per geografia e cultura come Seattle e l’Oklahoma hanno finito per incrociare i loro destini nella NBA. Con risvolti tutt’altro che romantici, come quando parve che Clay Bennett, il nuovo proprietario - un true Oklahoman - o uno dei suoi soci abbia apostrofato con epiteti sessisti le Seattle Storm, controparte femminile dei Sonics in WNBA, che infatti sono state vendute e sono rimaste lì.
Invece i maschi hanno lasciato la Rainy City, la città della pioggia, per diventare... tuono. Il nome Thunder è un omaggio a una caratteristica del meteo locale: i temporali improvvisi e violenti, quando non tornado (il film Twister è ambientato in Oklahoma). Thunder, inoltre, è l’appellativo del 45° Reggimento di Fanteria Carristi dell’esercito, di base a OKC. Il nome SuperSonics non si poteva più usare: è un marchio patrimonio della città di Seattle.
In tal modo la NBA è approdata “in mezzo da qualche parte”, in Oklahoma, nel cuore degli Stati Uniti centro-meridionali, tra cowboy, praterie e valori tradizionalisti. L’esatto contrario di Seattle: città anticonformista, culla della musica grunge e di una notevole controcultura urbana. E ai tifosi dei Sonics, comprensibilmente, non è mai andata giù. Oggi Seattle, insieme a Las Vegas, è considerata favorita in caso di una futura espansione della NBA.
Come un tuono
A questo punto, non mi resta che raccontarti ancora un po’ di storia, per spiegarti come mai conosciamo la precisa data di fondazione di Oklahoma City che ho accennato all’inizio. E c’è una piccola sorpresa: i Thunder non sono stati la prima squadra NBA a OKC! Qualche anno prima, infatti, ce n’era stata un’altra. Ma andiamo con ordine.
Le origini: Oklahoma deriva da okla humma, che nella lingua dei nativi Choctaw significa “terra delle genti rosse”. Il governo centrale aveva allontanato queste tribù da altre zone del paese e le aveva trasferite in massa qui. Ancora: l'Oklahoma è noto come Sooner State e i Sooners, letteralmente “quelli che arrivano prima, in anticipo”, sono in generale gli abitanti dell’Oklahoma, così come è il soprannome degli atleti della University of Oklahoma.
Chiamo in causa di nuovo un film, stavolta un western: Cimarron del 1960, con Glenn Ford. Sullo sfondo della pellicola diretta da Anthony Mann, c’è un momento fondamentale dell’epopea della conquista del West, fase decisiva per la nascita degli Stati Uniti come li intendiamo oggi. Mentre gran parte dell’Oklahoma era stata destinata alle tribù native, una porzione del territorio era rimasta “non assegnata”: le Unassigned Lands, appunto.
Fertili terreni pianeggianti, ricchi di boschi, ambiti da migliaia di pionieri. Varie famiglie erano già riuscite ad arrivare qui indisturbate e a insediarvi le proprie fattorie. A questo punto, lo stato centrale non poté far altro che dare il via libera a tutti gli altri coloni. Il 2 marzo 1889 il presidente Benjamin Harrison firmò un decreto: a partire dal 22 aprile, chiunque avrebbe potuto accaparrarsi un lotto.
Il risultato? Almeno diecimila pionieri si accamparono al confine con molti giorni d’anticipo, pronti a una vera e propria corsa - fu chiamata Oklahoma Land Rush - con cavalli, asini, carri, velocipedi o qualsiasi altro mezzo, piedi compresi, in attesa del colpo di cannone che a mezzogiorno del 22 aprile 1889 avrebbe dato il via alla colonizzazione. Fu in quel giorno che nacque ufficialmente Oklahoma City. Ma alcuni si erano mossi prima dell'alba, riuscendo a eludere la sorveglianza e a mettere la propria bandierina sui migliori terreni disponibili. Nottetempo, più presto, sooner, ed ecco il perché di Sooner State e Sooners.
Chiusa la digressione storica, torniamo nel XXI secolo e allo sport. Si parlava di Thunder e spunta un uragano: Katrina. Una delle peggiori sciagure naturali di inizio millennio, che alla fine di agosto 2005 si abbatté sulla Costa del Golfo e in particolare su New Orleans. La città della Louisiana, che si trova al di sotto del livello del mare, fu devastata dalle inondazioni, ingigantite dall’insufficienza del sistema di argini che avrebbe dovuto proteggerla dalle acque. La tragedia ebbe conseguenze profonde sulle squadre locali. I New Orleans Hornets, trasferitisi nella capitale del jazz solo tre anni prima, provenienti da Charlotte, dovettero fare nuovamente le valigie, a causa della prolungata inagibilità della New Orleans Arena (oggi Smoothie King Center e casa dei Pelicans, a sua volta inaugurata nel 1999).
La città che offrì le condizioni più vantaggiose e ottenne di ospitare le partite casalinghe dei “Calabroni” fu proprio Oklahoma City. Molto diversa rispetto a New Orleans e nettamente più a nord, ma prontissima ad accogliere la NBA in un’area pressoché vergine in fatto di sport professionistico. Quindi per due stagioni (2005-06 e 2006-07) la squadra prese il nome di New Orleans-Oklahoma City Hornets.
L’esilio degli Hornets, allora allenati da Byron Scott e guidati in campo da Chris Paul, con un roster che comprendeva Tyson Chandler e Predrag Stojakovic, giunse al termine venerdì 13 aprile 2007, con la sconfitta in casa per mano dei Denver Nuggets 105-107. La fine di una stagione da 39 vittorie e 43 sconfitte. Un successo in più rispetto alla precedente, conclusa 38-44. Svaniti i playoff, che probabilmente con meno infortuni sarebbero stati raggiunti, dall’annata seguente la franchigia tornò a New Orleans. Per la cronaca, nel 2013 la squadra cambiò il nome in New Orleans Pelicans, in omaggio all’uccello tipico della zona. Charlotte, invece, si riprenderà il nickname Hornets dal 2014, al posto del poco fortunato Bobcats.
Aver ospitato quelle due stagioni NBA si rivelò decisivo per Oklahoma City, che aveva facilitato l'operazione con notevoli agevolazioni economiche e fiscali. La città si presentò con un’arena allora nuova di zecca (a proposito: è già tempo di cambiarla, entro il 2028 ne sarà costruita una nuova esattamente accanto al Paycom Center). Il calore dei tifosi aveva abbracciato fin dall’inizio gli Hornets, rendendo possibile un ottimo rendimento casalingo: di fronte al proprio pubblico, gli Hornets registrarono 43 vittorie e 27 sconfitte. E l’allora commissioner David Stern, durante la serata di commiato, promise solennemente che «la NBA tornerà ad Oklahoma City!».
Detto fatto. Tempo un anno ed ecco i Thunder. Oggi, meno di vent’anni dopo, una franchigia nata da un discusso trasloco, arrivata alle Finals già una prima volta nel 2012, passata attraverso partenze illustri come quelle di Durant, Harden, Westbrook (resta un mercato comunque piccolo) ma gestita magistralmente da un manager del livello di Sam Presti, si è laureata per la prima volta campione NBA. Oklahoma City, snobbata dal grande sport, non era destinata a nulla. E invece è adesso un punto fermo almeno nel basket. Il trofeo non è solo un trionfo sportivo: è l’ultima tappa di una storia americana fatta di conquiste, disastri, fughe, verginità perdute, o forse mai avute. Un titolo arrivato “in mezzo da qualche parte”, ma che risuona fortissimo. Come un tuono.
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Off The Ball
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