Le Olimpiadi, dopo
#44 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi un po' di notizie e riflessioni post Parigi, un canestro da quattro punti e altre cose
Ciao, LeBron James qualche anno fa ha detto di un suo rivale: «Non lasciatevi fregare da quel sorriso». Chi è, lo sai.
Io invece sono Francesco Mecucci e questo è il numero 44 di Galis, la newsletter di Never Ending Season, il mio progetto editoriale con cui ti racconto il basket come cultura e stile di vita.
Nella scorsa uscita – leggila qui, se l'hai saltata – ho intervistato il giornalista Cesare Milanti e scritto dei portabandiera olimpici, oltre al consueto Shootaround dedicato ai contenuti consigliati a tema pallacanestro apparsi su web e social.
Oggi ti appresti a leggere alcune notizie e riflessioni scaturite dopo i Giochi Olimpici.
Start!
La squadra del mondo
Quando in Galis #43 ho parlato dei cestisti portabandiera, Massimiliano Bogni in un commento su Facebook mi ha giustamente fatto notare che, oltre a LeBron James, Giannis Antetokounmpo e Dennis Schroeder, ce n'era anche un altro da me omesso: Kuany Kuany, alfiere del Sud Sudan nella cerimonia inaugurale. Mia dimenticanza, sorry, così come mi sono accorto di non aver menzionato neppure Emma Meessemann per il Belgio e gli atleti del 3x3 Nauris Miezis (Lettonia), Worthy De Jong (Paesi Bassi) e Przemyslaw Zamojski (Polonia), nonostante il pezzo fosse comunque incentrato sui tre giocatori NBA portabandiera a Parigi e sulla valenza sociale della scelta di questi tre personaggi per ricoprire il prestigioso ruolo. A proposito, l'immagine di un fiero LeBron vestito di bianco con in mano la bandiera statunitense sulla prua del battello che trasporta lo squadrone statunitense rimane, a mio avviso, una delle foto più emozionanti dell'intera manifestazione.
Tornando a Kuany Kuany, ala trentenne che del Sud Sudan era il capitano, sarebbe stato impossibile per il comitato olimpico della nazione africana affidare tale compito ad altri che non fossero membri delle “Bright Stars” (il soprannome del team di basket), dal momento che non solo il drappello sud-sudanese era composto da appena 14 atleti, 12 dei quali appunto cestisti – gli altri erano la velocista Lucia Moris (portabandiera insieme a Kuany, come controparte femminile) e il mezzofondista Abraham Guem – ma anche per il fatto che è la pallacanestro l'unico motivo per cui il Sud Sudan, indipendente dal 2011, è conosciuto fuori dei suoi confini per qualcosa di diverso dalla guerra civile che dal 2013 al 2020 ha dilaniato il paese e che si è aggiunta alle devastazioni dell'ancora più lungo conflitto interno nell'ex Sudan unico, durato dal 1983 al 2005.
Al pari di svariati suoi connazionali, Kuany è cresciuto in Australia, dove esiste la più estesa comunità sud-sudanese all’estero grazie a un avviato programma di accoglienza e integrazione, che ha aperto inoltre a diversi studenti-atleti le porte dell'America e di altre destinazioni. Alcuni professionisti di oggi come Duop Reath e Thon Maker hanno scelto di vestire la divisa australiana, nonostante il secondo abbia richiesto, per ora invano, il nulla osta per passare al “suo” Sud Sudan, pur essendo in effetti già sceso in campo con i Boomers. Il Sud Sudan resta una nazionale nata in diaspora, a causa della situazione politica, sociale ed economica in patria e dell'assenza di strutture adeguate al coperto. Il presidente-factotum della federazione locale, l'ex All-Star NBA Luol Deng, praticamente finanzia di tasca propria l'attività, lui che da giocatore aveva rappresentato la Gran Bretagna, in quanto emigrato e stabilito a Londra e visto che il Sud Sudan ancora non esisteva.
Non sto qui a dilungarmi troppo sulla sorprendente storia delle “Bright Stars”, nazionale istituita poco più di un decennio fa e che, attraverso un intelligente lavoro di reclutamento e di gestione delle pochissime risorse disponibili, è arrivata a disputare i Mondiali 2023 e a centrare la qualificazione olimpica. La trovi in molti articoli e contenuti disponibili in rete. L'ultimo numero di Overseas, il magazine italiano in lingua inglese sulla basketball culture, le ha dedicato la cover e ampi servizi a cura di Andrea Casati (puoi leggerli qui). Persino il noto scrittore John Grisham ha scritto un romanzo abbastanza verosimile con protagonista una promessa del basket sud-sudanese, Il sogno di Sooley, che ho recensito in questo post.
I risultati del Sud Sudan nella pallacanestro sono, senz'ombra di dubbio, una vicenda straordinaria. Una squadra che rappresenta il mondo di oggi, senza confini ma pieno di realtà drammatiche. Questa storia è un segno tangibile di quanto lo sport possa essere veicolo di riscatto sociale (anzi, un fattore vitale, considerato il passato di molti di questi ragazzi) e di unità, identità e speranza per un popolo intero, che vive in un posto dove la speranza di vita è 55 anni e dove varie etnie si sono ammazzate le une con le altre per decenni, e che ora ha finalmente un esempio da seguire dopo tante sofferenze. Inoltre, il tutto sottolinea, ancora una volta, l'enorme contributo che il continente africano potenzialmente può offrire al basket.
Non è retorica: numerosi membri della nazionale sud-sudanese sono realmente nati nei campi profughi o ci hanno trascorso gli anni della loro infanzia e adolescenza, sopravvivendo alla morte violenta di familiari, parenti e amici. Oggi vivono e giocano in tutti i continenti, tra Asia, America, Europa, Australia o in zone più tranquille dell'Africa. Alcuni sono venuti al mondo direttamente all'estero e ora possono sfruttare possibilità impensabili fino a poco tempo fa. Un processo in piena prosecuzione, se pensiamo al diciottenne Khaman Maluach pronto a debuttare al college a Duke.
Solo una cortesia: non facciamola diventare l'ennesima storia strappalacrime a uso e consumo dei social. Non infiocchettiamola con orpelli favolistici che la allontanerebbero dalla realtà. Non rendiamola mainstream o, peggio, fonte di diatriba politica, dandola in pasto all'ennesima, stucchevole polemica sull'immigrazione, qualunque sia il punto di vista. Per favore, non roviniamola. Se vediamo una deriva di questo tipo, opponiamoci con tutte le forze. Trattiamo sempre con rispetto e ammirazione il meraviglioso percorso che hanno compiuto questi giovani uomini.
L'ambiguo Embiid
Dopo aver vinto la medaglia d'oro con Team USA, Joel Embiid è stato insignito dal presidente del Camerun, Paul Biya, dell'Ordine al Valore, una delle massime onorificenze del paese africano, come sorta di ambassador camerunense nel mondo. In tale occasione, il centro dei Philadelphia 76ers ha dichiarato che non gli dispiacerebbe, ai Giochi di Los Angeles 2028, vestire la maglia del Camerun. E qui raggiungono il top le non poche ambiguità che lo hanno accompagnato negli ultimi tempi.
Joel Embiid – mai notato che ha un cognome da indice di borsa? LOL – è nato in Camerun, nella capitale Yaoundé, dove ha trascorso i primi 16 dei suoi attuali 30 anni di età, approdando poi negli Stati Uniti, per studiare e giocare a basket in un liceo. Gli States, con l'unico anno a Kansas University e il successivo approdo in NBA, sono diventati presto la sua definitiva casa. Nel 2022 ha ottenuto la cittadinanza americana e, non ho mai capito perché, pure quella francese. Non avendo mai militato nella nazionale del suo paese natale e nonostante il pressing della Francia, alla fine ha optato per gli USA, da naturalizzato. Nulla di strano: è stata una sua decisione legittima.
Tuttavia, il governo del Camerun ha deciso di conferire ugualmente un riconoscimento ufficiale a un suo atleta professionista che ha scelto invece di rappresentare un altro paese. Ok, magari lui si sente “americano” solo nel basket e nel cuore rimane camerunense, ma è il basket ciò per cui Embiid è conosciuto ovunque. Avendo scelto gli Stati Uniti, ha così privato il Camerun della possibilità di vantare come suo al 100% il giocatore più forte che sia mai nato lì (un po' come quando Hakeem Olajuwon, nigeriano, accettò diventare statunitense per i Giochi di Atlanta 1996). Senza nulla togliere alla piena facoltà di decidere da parte di Embiid, eticamente, almeno a me, questa scelta non è piaciuta.
Team USA, tra tutte le nazionali, è quella che ha meno bisogno di ricorrere alle naturalizzazioni per innalzare il proprio tasso tecnico. Embiid, però, è una superstar NBA e va detto che nella sua decisione potrebbero aver influito gli sponsor. Anzi, lo darei per certo, se vai a rileggere le motivazioni da lui dichiarate, piuttosto ambigue e di facciata: all'inizio ha detto di aver scelto gli Stati Uniti perché è il paese in cui è nato suo figlio, mentre ultimamente perché era stato ben accolto dai compagni. In ogni caso, su una cosa ha avuto ragione: lui con la Francia, e lo ha ammesso chiaro e tondo, non c'entrava assolutamente nulla e quindi i fischi dei tifosi francesi nei suoi confronti sono stati fuori luogo.
Resta il fatto che Joel Embiid ha tolto alla sua nazione il miglior cestista che abbia mai avuto. E dire che il Camerun, tra l'altro partecipante al Preolimpico, avrebbe potuto mettere su una rappresentativa molto interessante: oltre a lui, Pascal Siakam (altro camerunense mai visto nelle competizioni FIBA), Christian Koloko (elemento dei Toronto Raptors al momento fermo per problemi di salute), l'“italiano” Paul Eboua, vari giocatori attivi in Europa e nei college, il naturalizzato Jeremiah Hill e ben due scelte all'ultimo Draft NBA, Yves Missi e Ulrich Chomche. Insomma, è stata persa una bella occasione.
E la volontà di Embiid di rappresentare il Camerun nel 2028? Al momento non è uno scenario fattibile. Se si è scesi in campo in competizioni ufficiali con una nazionale, non si può più giocare per altre, salvo casi particolari in cui è possibile una deroga. Ad esempio, se la nazionale destinataria è di nuova o recente costituzione (non è scontato: Thon Maker, come detto prima, non è stato autorizzato a passare dall'Australia al Sud Sudan) o se viene ritenuta dalla FIBA in fase di sviluppo e di interesse promozionale (come le Bahamas, che hanno ottenuto l'ex USA Eric Gordon e forse avranno Klay Thompson). Il Camerun è invece una delle migliori rappresentative africane, finalista continentale nel 2007, e non sembra rientrare in nessuna delle due casistiche. A meno che non arrivi una super deroga, che costituirebbe un “pericoloso” precedente.
Infatti, è da ricordare che in ambito FIBA è previsto un solo naturalizzato per squadra, a differenza di sport come calcio, rugby e baseball. Una norma fondamentale nel basket, altrimenti vedremmo Bahrein o Cipro con interi quintetti di americani... Cosa ne penso? Credo che le naturalizzazioni nello sport debbano avere un senso più profondo di un semplice passaporto. Non mi entusiasma avere nella mia nazionale un giocatore che non sa nemmeno una parola della mia lingua e che è stato reclutato solo a scopo tecnico, come tra l'altro ha dichiarato lo stesso CT azzurro Pozzecco. Manterrei quindi il massimo di uno per nazionale e la possibilità di cambiare maglia solo con le deroghe già descritte. Vedere Joel Embiid con il Camerun nel 2028 sarebbe senza dubbio molto bello, ma se fare un'eccezione per lui debba avere come conseguenza stravolgere l'identità del basket internazionale, a questo punto sarebbe meglio di no e che continui a essere “americano”. In fondo, lo ha voluto lui.
Banchero for four!
A proposito di naturalizzazioni, c'è già chi ride a sentire questo nome. Il 18 agosto è in qualche modo entrato nella storia del basket tale Chris Banchero. Che altri non è che il cugino trentacinquenne del più noto Paolo, italiano mancato. «Naturalizziamo lui, no?», avrai letto su parecchi, ironici commenti social. Scherzi a parte, Chris ha ottenuto notorietà (momentanea?) per aver segnato il primo canestro da quattro punti con i suoi Meralco Bolts nella vittoria contro i Magnolia Hotshots.
Un momento, di cosa sto parlando? Del campionato delle Filippine, la PBA, e non di una giocata da quattro punti, cioè tiro da tre con fallo e tiro libero supplementare, ma di un vero e proprio canestro che vale quattro. Infatti questa lega, prima a farlo in pianta stabile, ha introdotto una nuova linea sul parquet, alla distanza di 8,23 metri dal ferro, circa un metro e mezzo più lontana rispetto all'arco FIBA (6,75) e un metro da quello NBA (7,25).
Non si tratta della prima apparizione. Nelle stesse Filippine la linea era già stata testata nel locale All-Star Game, mentre in NBA è comparsa dal 2019 nell'All-Star Celebrity Game, la partita tra personaggi di musica, spettacolo e sport, ma a una distanza di 7,85 metri, circa 60 centimetri oltre quella da tre. Due anni prima, invece, gli Harlem Globetrotters hanno inserito nelle loro partite-esibizioni la linea del tiro da quattro a 9,15 metri dal canestro, mentre la ABA – non quella scomparsa nel 1976 ma quella semi-professionistica rifondata nel 2000 – assegna 4 punti a ogni tiro scagliato da oltre la metà campo. Nella lega 3x3 Big3, invece, posizionandoti in tre cerchi, anch'essi a circa 9,15 metri, puoi tentare un canestro da quattro.
Insomma, ci troviamo in una fase altamente sperimentale e nessun rappresentante delle maggiori organizzazioni mondiali si è ancora espresso in merito. È quindi pressoché impossibile ipotizzare se il canestro da quattro avrà un seguito o se sarà una divertente trovata destinata a rimanere relegata in esibizioni o in campionati “esotici”. Però la tendenza del basket nel nuovo millennio è quella di un aumento esponenziale del tiro da tre, diventato oggi la prima opzione offensiva, tanto che giocatori come Steph Curry e Damian Lillard lo fanno ormai sembrare facile quasi come un tiro libero. E in ogni caso l'innovazione del campionato filippino ha ricevuto l’ok della FIBA, il che fa immaginare a una possibile apertura in futuro.
Il tiro da tre, invece, era arrivato nella NBA nel 1979-80, la stagione che, complice anche il debutto di Magic Johnson e Larry Bird, si può considerare l'inizio della pallacanestro contemporanea. In ambito FIBA è stato ammesso cinque anni più tardi, nel 1984. La tripla è stata uno dei fattori che ha cambiato radicalmente il gioco, paragonabile soltanto all'introduzione dello shot clock nel 1954. E inizialmente era visto con diffidenza, un po' come il tiro da quattro oggi.
A me sinceramente questa novità non piace, ma forse perché i cambiamenti profondi, di primo acchito, ci spaventano. Staremo a vedere. In parallelo, si porrebbe il problema delle dimensioni del rettangolo di gioco, che già adesso, ai massimi livelli in area FIBA, cominciano a stare piuttosto strette, dato l'accresciuto atletismo dei cestisti e un gioco sempre più basato sulle conclusioni dalla lunga gittata.
Dissa, Bro…wn!
Sai cosa vuol dire dissing? In gergo hip hop, è quando un rapper inserisce nei versi (bars) di un suo brano (track) un riferimento diretto o indiretto a un collega o a chiunque altro, per provocarlo, sbeffeggiarlo o attaccarlo. A volte è l'intero pezzo a costituire un dissing – termine che deriva dall'abbreviazione di disrespecting – e in tal caso si ha una diss track o diss song. Insomma, dissing è quando un rapper “trolla” qualcuno.
Jaylen Brown, campione NBA con i Boston Celtics e MVP delle ultime finali, ha fatto notizia per l'esclusione dalla nazionale statunitense che poi ha vinto la medaglia d'oro ai Giochi. Un roster che invece includeva l'altra superstar dei bianco-verdi Jayson Tatum e anche Derrick White, chiamato all'ultimo momento in sostituzione dell'infortunato Kawhi Leonard e sicuramente, per quanto prezioso comprimario e collante del team, non certo pari al livello di Jaylen Brown.
Quest'ultimo non l'ha presa bene e ha dichiarato che sulla sua mancata convocazione Nike, sponsor della nazionale di basket e dell’intero team olimpico, avrebbe esercitato una forte influenza. L'azienda, infatti, era stata criticata negli anni scorsi da Brown per come aveva gestito la questione di Kyrie Irving. Tieni presente che il giocatore dei Celtics non è un tizio che parla a vanvera, ma un laureato a pieni voti a Berkeley, campione di scacchi, impegnato socialmente, insomma uno a cui l'intelligenza sembra non difettare.
Non molti giorni fa, a Olimpiadi concluse, Jaylen ha lanciato il suo primo brano rap. Un esordio musicale che lo vede in featuring con A$AP Ferg, rapper di New York con cui ha una lunga amicizia. Qual è il titolo del pezzo? Just do it, proprio come il celebre payoff di Nike. Quindi si è subito pensato a un dissing più che mai esplicito. Se però vai a leggere il testo, non c'è traccia della vicenda dell'esclusione di Brown dalla squadra olimpica, appena accennata nell'intro recitato del videoclip attraverso le news di un telegiornale.
Oltre al titolo, che comunque è innegabilmente un richiamo esplicito a Nike, non ci sarebbe dunque nient’altro, perché la canzone è un classico rap melodico e nel video Brown e Ferg si mostrano nel tipico cliché di rapper “ricchi e fighi”, tra donne, auto sportive, soldi, sigari e champagne. Curioso come il testo sia parecchio “sboccato”, il che sorprende per un personaggio che finora si era sempre fatto vedere come il classico bravo ragazzo. Tanto che il ritornello ripete “'Cause I'm the only one they wanna fuck with now”, cioè “Perché sono l'unico con cui ora vogliono andare a letto”. Ok, non dice esattamente “andare a letto”, ma hai capito.
In realtà, un dissing è stato individuato. È implicito e sarebbe rivolto al problematico giocatore NBA Kevin Porter Jr, già incriminato per violenza domestica e uscitone con un patteggiamento, finito la scorsa stagione in Grecia al PAOK e ora firmato dai Los Angeles Clippers. Nei primi versi Brown rappa “I learn how to touch her without using my hands” (“Ho imparato come toccarla senza usare le mani”) e qui alcuni hanno visto un'allusione alla vicenda di Porter Jr, accusato dalla ex compagna Kysre Gondrezick, anche lei giocatrice con qualche esperienza in WNBA. Sai chi sta frequentando da un po’ Gondrezick? Jaylen Brown.
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
Michele Pettene è stato a Lille per Stati Uniti-Sud Sudan e ha scritto su Esquire perché LeBron James è una rockstar.
Tanto che Davide Barco ha illustrato il Re per il New York Times.
Come mai è importante il basket 3x3 ai Giochi Olimpici? Lo spiega Cesare Milanti su NSS.
Ecco la foto definitiva di Team USA con la medaglia d'oro sulle scalinate esterne dell'arena di Bercy.
Ancora LeBron: in attesa del suo presumibile endorsement per Kamala Harris, qui Justin Tinsley di Andscape ricorda come James si era mosso in occasione delle precedenti elezioni presidenziali. (in inglese)
Ultima su LeBron: la speciale Nike Air Zoom Generation Since The Beginning nata dalla collaborazione con il magazine SLAM in occasione dei suoi 30 anni e ispirata al numero 78 con lui ancora rookie in copertina: la illustra Nick DePaula. (in inglese)
Ma di Spike Lee che posta su Instagram le splendide cover fake di Sports Illustrated e SLAM con Jesus Shuttlesworth aka Ray Allen, ne vogliamo parlare?
Opinioni, retroscena e storie raccontati dalle grandi firme di Sky Sport: arriva Insider, la sezione premium, gratuita per gli abbonati.
Ecco il film integrale di The Season, la docuserie prodotta da LBA che narra dall'interno la stagione 2023-24 della Pallacanestro Brescia.
Massimiliano Bogni di Backdoor Podcast (da me citato nel paragrafo sul Sud Sudan) ha intervistato Jason Terry all'Adidas Eurocamp di Treviso.
L'assurda vicenda della finta nazionale colombiana che si è presentata a un torneo in Russia: così su La Gazzetta dello Sport.
Secondo numero di The Rookie, la rubrica di Never Ending Season in cui Chiara Scardaci racconta le emozioni del basket dal punto di vista di una neo-praticante: qui parla della sua esperienza in una squadra amatoriale di Roma.
E ti saluto - cattivissimo! - con quasi 5 ore di momenti clutch di Steph Curry! (Sì, ancora lui, e Shootaround breve stavolta, era agosto!).
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Sto lavorando alla crescita dell’intero progetto. Nelle prossime settimane potrebbe arrivare qualche novità. Alcune cose saranno mantenute, altre cambiate, altre introdotte: al momento sono un cantiere.
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