Oltre i confini
#43 – Basket, cultura, lifestyle: qui trovi l'intervista a un giornalista promettente, i portabandiera olimpici e lo Shootaround
Ciao, rimanere chiusi nei propri confini non porterà mai da nessuna parte. È così e lo sarà per sempre.
Io sono Francesco Mecucci e questo è il numero 43 di Galis, la newsletter del mio blog Never Ending Season, dove ti parlo di basket come cultura e stile di vita.
Nella scorsa uscita – leggila qui, se l'hai saltata – ho scritto di JJ Redick da podcaster ad allenatore dei Lakers, di Sporteam Academy a Rimini e dello stato della pallacanestro a Roma.
Oggi ti porterò di nuovo nel mondo dei media, mettendo in evidenza un aspetto chiave della comunicazione sportiva contemporanea: ogni club, ogni organizzazione, ogni atleta è un creatore di contenuti e si rivolge a un pubblico più ampio possibile.
Di questo e di molto altro ho parlato con un ospite che, nonostante la giovane età, ha già accumulato esperienze importanti e sviluppato una visione chiara di come si racconta il basket oggi.
Partiamo con lui!
La fortuna aiuta gli audaci
Cesare Milanti è una delle firme e voci più promettenti e interessanti nell'attuale scenario dei media di basket. A 24 anni, ha già seguito sul campo oltre dieci eventi in Italia, in Europa e nel mondo e, lavorando soprattutto in inglese, si è costruito un profilo internazionale di livello.
Nato a Pavia e based in Bologna, Cesare scrive per Eurohoops, uno dei principali portali di pallacanestro europea, nell'ultima stagione è stato bordocampista di DAZN in Serie A e di recente ha iniziato a collaborare con due realtà italiane all'avanguardia nella narrazione sportiva quali L'Ultimo Uomo e Overseas.
Poche settimane fa è tornato da Riga, dove ha coperto il Preolimpico come membro del team editoriale FIBA, vale a dire i professionisti che producono i contenuti ufficiali della federazione.
Un'esperienza che si è andata ad aggiungere ad altre simili da lui vissute, oltre che con FIBA, anche con FIP e LBA. Ed è anche autore di un romanzo a sfondo basket, Il pipistrello nella retina, pubblicato da Ultra Edizioni, «non un capolavoro della letteratura di sport – sorride Milanti - ma il risultato di una sfida con me stesso, oltre che un passatempo nato durante la pandemia. È piaciuto».
Cesare, iniziamo dalla tua esperienza a Riga: cosa ha significato per te seguire un Preolimpico nel team FIBA?
Rappresentare una federazione è un approccio diverso rispetto a essere l'inviato di una tv o di un giornale. Come si dice, sei dall'altra parte della barricata. L'accesso alle varie zone del palazzetto, a giocatori e coach, alle conferenze stampa è più facile, hai maggiori opportunità di avvicinare tutti e di lavorare a stretto contatto con i protagonisti. Per me resta un'esperienza incredibile e bellissima: se è vero che la fortuna aiuta gli audaci, posso dire di essere stato, negli ultimi anni, abbastanza audace da guardare oltre i confini italiani e costruirmi possibilità come questa.
In cosa è consistito il tuo lavoro al Preolimpico?
Mi sono occupato principalmente di contenuti editoriali classici: report delle partite, interviste e approfondimenti, pubblicati sulla pagina del sito FIBA dedicata al torneo di Riga, così come c'erano quelle degli altri preolimpici di Pireo, San Juan e Valencia. Poi, in base a ciò che succedeva, con il team abbiamo creato contenuti specifici, dando una mano anche lato social. Ad esempio, quando le Filippine hanno battuto a sorpresa la Lettonia, abbiamo cercato di cavalcare al massimo l'onda dell'enorme passione di quel popolo. Oppure, abbiamo preparato un video ad hoc su Marcelinho Huertas, chiedendo ai compagni di descriverlo con una parola e realizzando un collage diventato virale, in collaborazione con la Nazionale brasiliana e con i colleghi di NBA Brasil e FIBA AmeriCup.
Come descriveresti, dal punto di vista professionale e umano, l'atmosfera che si respira in manifestazioni come questa?
Grande spirito di squadra, clima collaborativo e dinamico, confronto continuo e in generale una bella alchimia di gruppo. Sono aspetti che non mi lasciano indifferente, ripensando a quando, in occasione di eventi che ho seguito da inviato, mi è capitato spesso di ritrovarmi pressoché da solo. Inoltre ho fatto parte di una squadra FIBA giovane, in cui nessuno, tra autori, social media manager, videomaker e addetti alle relazioni con i giornalisti, aveva più di quarant'anni.
Oggi le società, le organizzazioni, gli stessi atleti sono content creator: che idea ti sei fatto in merito?
Credo che sia una tendenza dettata dalle esigenze dell'attuale generazione di consumatori di contenuti sportivi e legata a un discorso di engagement per i fan. Una federazione o un club possono dimostrare, con opportuni investimenti, che lo spettatore non ha bisogno di passare dai media tradizionali per usufruire di un contenuto di qualità. Ma produrre contenuti di livello costa e dipende molto dalla capacità economica: con tutto il rispetto per ciò che sta facendo LBA in Italia, che non è poco, realtà come FIBA ed EuroLeague dispongono di una potenza superiore in termini di risorse da investire e la differenza si vede.
Oltre al coinvolgimento dei fan, aggiungerei la necessità di arrivare a un pubblico più vasto, senza confini. Scrivere in inglese quanto ti aiuta?
Per me è fondamentale. Sono almeno due anni che gran parte del mio lavoro si svolge in inglese e questo mi ha aperto porte che sarebbero rimaste chiuse se avessi scritto solo in italiano. Da noi, comunque, ci sono alcune realtà che stanno ampliando la loro visione. Penso al magazine Overseas, realizzato da italiani ma in inglese, e a L'Ultimo Uomo, un'eccellenza della narrazione sportiva nella nostra lingua, la definirei un oasi nel deserto. Ancora in Italia, la FIP mi dà l'opportunità di raccontare storie e parlare con i protagonisti senza eccessivi compromessi.
Preferisci la scrittura o cimentarti con l'audiovisivo?
Le mie preferenze sono diverse, se consideriamo i contenuti altrui oppure quelli che realizzo io. Nel primo caso, sono un grandissimo ascoltatore di podcast e spettatore di video, ma per quanto riguarda i lavori da me prodotti, credo di avere migliori capacità nello scrivere che nello stare davanti a un microfono o a una telecamera. Questo è dovuto al fatto che, finora, ho avuto meno esperienze di podcast e tv. Magari in futuro mi capiterà il contrario, visto che audio e video, secondo me, saranno sempre più dominanti.
Abbiamo parlato di confini e limiti da superare: oltre alla lingua, per te questo vale anche nell’interpretazione del giornalismo e nello stile?
Esattamente. In futuro, più che un reporter, cosa che faccio comunque senza problemi, vorrei diventare soprattutto un autore di interviste, speciali, approfondimenti. Ho l'esigenza di scrivere tanto e raccontare tanto, mi è sempre stato stretto rimanere incanalato nei limiti di spazio della carta stampata, e questo aspetto è lo stesso sia lavorando in Italia che all'estero. Per quelle che sono state finora le mie esperienze professionali, noto che oltre confine c'è sicuramente un approccio diverso, ma non è che non esistano realtà straniere con mentalità retriva, anzi.
Raccontaci qualcosa dei tuoi esordi.
Ho iniziato provando a scrivere di calcio, di cui sono un grande appassionato, per alcuni siti, ma presto mi sono reso conto che sarebbe stato difficile trovare uno sbocco. Quindi ho virato sul basket, anch'esso presente da sempre nella mia vita, evitando di finire a scrivere di NBA come fanno tanti ma dedicandomi al basket italiano ed europeo, che è il mio ambiente. Il primo tentativo è stato con Overtime - Storie a Spicchi: mi sono proposto via mail a Luca Mazzella, il mio stile è piaciuto ed è andata bene. Da lì si sono aperte strade importanti, come una collaborazione con LBA e la possibilità di seguire nel 2022 la Final Four di BCL a Bilbao. Tra i media eravamo solo due italiani, io ed Ennio Terrasi Borghesan, e c'erano spazi di manovra per conoscere persone, stabilire contatti e persino accompagnare in giro giornalisti più esperti di me, visto che, avendo fatto l'Erasmus lì, conoscevo la città. Da quell'esperienza è venuto tutto il resto.
Quanti eventi hai seguito di persona e qual è stato il migliore?
Ho preso parte finora a 10-15 eventi dal vivo e l'esperienza più indimenticabile è stata quella del Mondiale 2023 a Manila. Coprire una Coppa del Mondo di pallacanestro, così come di qualsiasi altra disciplina, a soli 23 anni è pazzesco. Un traguardo per cui ho lavorato duro, che mi ha permesso di incontrare gente che seguivo da anni e di entrare in contatto con la realtà della Nazionale italiana. Conoscere personalmente Gigi Datome e vederlo trascorrere le sue ultime ore da giocatore è stato speciale. Ma ho ricordi indelebili per ogni evento in cui ho lavorato. In futuro, visto che non sono riuscito ad andare a Parigi, ho come obiettivo i Giochi di Los Angeles 2028.
Quali sono i tuoi modelli nel giornalismo sportivo?
Sono cresciuto guardando Federico Buffa, da cui ho appreso molto, e lo scorso anno ho avuto l'opportunità di presentare con Flavio Tranquillo uno dei suoi libri, incontrando colui che per me è un mito. Aggiungo Alessandro Mamoli, figura di riferimento per il giornalismo cestistico italiano, conosciuto a Manila, e le firme storiche dell'Ultimo Uomo. A livello internazionale mi ispiro a Igor Curkovic, che adesso posso definire un mio collega in FIBA, Donatas Urbonas di Basketnews e Tim Reynolds di AP, anche quest'ultimo incontrato al Mondiale 2023.
Sei nato nel 2000 e quindi sei cresciuto in un mondo già “digital” e “social”: qual è il tuo rapporto con le varie piattaforme?
Utilizzo, nell'ordine, Spotify, X/Twitter e Instagram. Spotify perché, come detto, sono un continuo ascoltatore di podcast. X/Twitter perché nel mio lavoro, e per chiunque voglia intraprendere questa strada, è uno strumento essenziale per raccogliere informazioni ed entrare in contatto con numerose persone. Instagram è importante e ci passo del tempo ogni giorno, ma sto cercando di ridurre l'inutile scrolling compulsivo. Sono poi una mosca bianca per la mia generazione, dal momento che non uso TikTok, nonostante oggi, se vuoi arrivare ai più giovani, è necessario considerarlo. Infine, su Facebook e LinkedIn promuovo i miei contenuti, però non li uso correntemente nel quotidiano.
Per finire, ti chiedo se c’è un aspetto del basket al di fuori del parquet che ti attira particolarmente.
La risposta puoi intravederla nel mio modo di impostare le interviste. Sono attratto da come un giocatore o un allenatore vive le sue giornate fuori dal campo, in particolare il game day. La sua routine, il modo di avvicinarsi alla partita. Perché la partita è il culmine, il motivo per cui lui è lì, per cui il tifoso compra il biglietto, per cui il giornalista va a fare reporting. Raccontando questo lato si apre più di uno scenario su ogni personaggio: cosa legge, cosa ascolta, cosa ama fare, come vive la città e tutto ciò che circonda il gioco.
Grazie Cesare per la disponibilità e la cortesia e in bocca al lupo per il tuo proseguimento di carriera.
Bandiere nazionali
LeBron James, Giannis Antetokounmpo, Dennis Schroeder. Cosa hanno in comune? Sono stati i tre giocatori NBA scelti dalle rispettive nazioni – Stati Uniti, Grecia, Germania – come portabandiera alla cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici di Parigi 2024, svoltasi qualche giorno fa.
Essere portabandiera olimpico è uno degli onori più grandi che un atleta possa ricevere. Perché significa aver dato tanto al proprio paese in termini di risultati, impegno e prestigio, oppure – fermo restando il valore sportivo dell’atleta – anche rappresentare un sentimento o un messaggio profondo con cui quel determinato paese vuole identificarsi.
Partendo da LeBron, se a qualcuno in questo periodo possa venire il dubbio che gli USA abbiano un presidente, di sicuro hanno un Re. Chi meglio di lui rappresenta l'America di oggi, tra l'immancabile marketing – James è un gigantesco imprenditore di se stesso – e le istanze degli afroamericani di cui non ha mai smesso di essere alfiere?
Per quanto riguarda Giannis, be', ormai la sua storia la conoscono tutti o quasi: da figlio apolide di immigrati nigeriani privi di documenti a simbolo di un popolo intero, dopo un percorso incredibile che lo ha portato dalle strade di Atene, dove aiutava i genitori a vendere merce ai semafori, fino alla vetta della NBA.
Quindi, Dennis Schroeder: nome e cognome teutonici ma fattezze nettamente africane. Nato da madre originaria del Gambia, è cresciuto a Braunschweig, tra povertà, razzismo, problemi di accettazione sociale e la morte prematura del padre. Dennis non è stato certo lì per fare da spot all’integrazione, ma come professionista e campione del mondo in carica con la Germania, autore del canestro decisivo per lo storico titolo vinto nel 2023.
Eh sì, queste tre persone hanno anche la pelle nera. Un aspetto a cui, nel mondo di oggi, nessuno dovrebbe più fare caso. Ma che invece, purtroppo, i mai tramontati episodi di intolleranza fanno tuttora saltare all’occhio. Anche quando tre grandi atleti come loro vengono scelti per rappresentare le proprie nazioni, a maggior ragione nell’evento sportivo che più di ogni altro dovrebbe incarnare ideali di uguaglianza e fratellanza.
Mi è venuto in mente il triste episodio di 24 anni fa, quando Carlton Myers, all'epoca il cestista italiano più forte e conosciuto, campione d'Europa da protagonista, venne scelto come portabandiera azzurro a Sydney 2000. Carlton, nato a Londra da madre italiana e padre inglese di origini caraibiche, è di Rimini ed è sempre stato italiano al cento per cento.
A Viterbo, la mia città, durante una partita di calcio di serie C, la curva locale espose uno striscione con scritto “Vergogna per Myers portabandiera”. Fu un fatto orribile, che ebbe rilevanza nazionale e che ricordo bene, perché c’ero, avevo 18 anni. Lessi quello striscione dalla tribuna. Io non mi sono mai vergognato del posto da cui provengo né dell’Italia, non amo farlo, ma in quell’occasione mi vergognai profondamente di entrambi, eccome.
Ormai è passato tanto tempo, è vero, tuttavia è proprio avere la memoria corta che permette a certe situazioni di ripresentarsi: ricorda bene, il razzismo non è mai la risposta, qualsiasi cosa accada intorno a noi, qualsiasi problema stiamo attraversando nella nostra vita.
James, Antetokounmpo e Schroeder sono soltanto gli ultimi dei finora 56 giocatori di basket che hanno avuto l’onore di essere portabandiera olimpici. Il primo fu l'estone Erich Altosaar nel 1936 a Berlino – fino al 1940 l'Estonia era ancora indipendente dall'URSS, da cui tornerà libera nel 1991 – che morirà cinque anni dopo in un campo di prigionia sovietico, dove era stato internato come sovversivo dal regime di Stalin.
Nel 1984, a Los Angeles, alfiere dell'allora Jugoslavia unita fu Drazen Dalipagic, lo straordinario tiratore baffuto visto anche nel campionato italiano tra Venezia, Udine e Verona, mentre nel 2000 a Sydney l'Australia venne rappresentata da uno dei simboli dei "Boomers", Andrew Gaze.
La cerimonia inaugurale di Atene 2004 vide Carlos Arroyo portabandiera di Portorico, Dejan Bodiroga di Serbia-Montenegro e Dawn Staley degli USA (una delle 7 giocatrici scelte nel ruolo, tra cui l'australiana Lauren Jackson nel 2012), mentre a Pechino 2008 Yao Ming portò il vessillo della Cina padrona di casa, Manu Ginobili quello dell'Argentina, Andrei Kirilenko della Russia e Dirk Nowitzki della Germania.
Nel 2012 la Cina affidò di nuovo la bandiera a un giocatore di basket, Yi Jinlian, mentre Pau Gasol ebbe in mano quella della Spagna. A Rio de Janeiro, nel 2016, ci fu il solo Luis Scola per l'Argentina, mentre a Tokyo 2020 un notevole affollamento di cestisti: Samad Nika Bahrami (Iran), Patty Mills (Australia), Tomas Satoransky (Repubblica Ceca), Rui Hachimura (Giappone) e le donne Miranda Ayim (Canada), Sonja Petrovic-Vasic (Serbia) e Sue Bird (USA).
Shootaround – Consigli di lettura, ascolto, visione, condivisione
The First Slam Dunk è oggi disponibile su Prime Video per gli abbonati, senza costi aggiuntivi. Ho recensito qui sul mio blog il film di Takehiko Inoue, tratto dal manga e anime Slam Dunk.
Ti invito a leggere anche le recensioni, probabilmente più meritevoli della mia, di:
Giammaria Tammaro su L'Ultimo Uomo.
Guendalina Carlini su Hanabi Temple.
Mario Pasqualini su Dimensione Fumetto.
Se vuoi leggere qualcosa di interessante su Slam Dunk, inteso come fumetto e cartoon, è sempre valido il pezzo di Andrea Cassini uscito alcuni anni fa su L'Ultimo Uomo.
Alla fine è successo: gli Splash Brothers si sono divisi. Marco D'Ottavi su L'Ultimo Uomo (ancora, ma se son bravi, son bravi!) racconta l'epopea dei "fratelli del ciuffo" Steph Curry e Klay Thompson.
Marco Gaetani su Il Foglio parla di Chase Budinger, l'ex giocatore NBA ai Giochi di Parigi come atleta di beach volley: leggi l’articolo qui.
Dello stesso autore qui su Linkiesta puoi leggere un estratto di Argento vivo, libro sull’Italia seconda alle Olimpiadi 2004.
Già che ho aperto il capitolo libri, sette giornalisti hanno dedicato un volume alla vittoria di Napoli nell'ultima Coppa Italia: è nato così Una coppa all'improvviso.
Pionieri della pallacanestro in Sicilia è invece l’opera di Roberto Quartarone sugli albori del basket nell’isola: eccolo.
Qui ho recensito il libro Una magnifica ossessione di Matteo Girardi, tra basket, vita e passione per la Fortitudo Bologna.
Come ha fatto la Francia a diventare una potenza globale del basket? Lo ricostruisce la giornalista statunitense Lindsay Sarah Krasnoff nel libro Basketball Empire, in vendita qui (in inglese). Qui su The CS Monitor puoi leggere invece l'intervista all'autrice. (in inglese)
Poi c'è Davide Piasentini, autore di vari volumi sul basket americano e già firma NBA de La Gazzetta dello Sport, che ha debuttato nella narrativa con il romanzo I'll follow the sun (Ultra Edizioni). Già letto, merita: acquistalo qui.
I brand di moda stanno aiutando con le giocatrici WNBA a elevare il loro stile: ne parla Frankie de la Cretaz su Andscape. (in inglese)
Ecco come Chris Brickley è diventato il trainer delle superstar NBA: qui il pezzo di Ryan Morik su Fox News. (in inglese)
E Wilson gli ha dedicato un'edizione speciale del pallone Evolution, con gli skyline di Manchester, la sua città natale in New Hampshire, e di New York.
Il documentario sul titolo NBA dei Boston Celtics.
Su Meridiano 13, magazine specializzato su nord-est italiano ed Europa orientale, Michele Pettene narra la storia dell'ex cestista albanese Klaudio Ndoja, già tema del suo libro La morte è certa, la vita no.
Lo straordinario percorso di Pietro Scibetta, giornalista e dirigente sportivo, nell’intervista al 24 Grind Podcast di Mirko Sirtori: ascoltala qui.
Pistoia Basket 2000 traccia un bilancio del primo anno di partnership con Gonzaga University.
La giovane italiana Martina Mutterle racconta a Pianeta Basket la sua esperienza al camp NBA Basketball Without Borders a Phoenix.
Michele Spiezia su Storiesport.it continua a tirar fuori interessanti retroscena del basket italiano: c'entrano Petrucci (e ti pareva...), il Vaticano (!) e Armando Buonamici (sì l'ex proprietario di Eurobasket Roma). L’articolo qui.
Guido Guida, editore della newsletter Spicchi d'Arancia, intervistato dallo storico giornalista Enrico Campana nella sua newsletter BasketVision: molto interessante, leggila qui.
Marco De Benedetto, direttore generale di Pallacanestro Brescia, racconta a Backdoor Podcast che cosa significa davvero partecipare da addetto ai lavori alla Summer League di Las Vegas.
Il video di auguri dell'Olimpia Milano per i 90 anni di Giorgio Armani.
C'è stato un leggero restyling per il logo dei Brooklyn Nets.
Ma alla fine, quando vedi una foto delle 4000 persone intorno al playground dei Giardini Margherita di Bologna per il torneo che dura da 42 anni, cosa altro puoi dire?
Un attimo, prima di andare
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In questa estate sto programmando la crescita dell’intero progetto. Alcune cose saranno mantenute, altre cambiate, altre tutte nuove: al momento sono un cantiere in corso.
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È tutto, ci vediamo il 31 agosto. Buone vacanze, se vai in ferie in questo periodo!